lunedì 2 gennaio 2012

Una storia vera sull'emigrazione in terra svizzera negli anni '60-'70

Dall’Italia alla Svizzera e (qualche) ritorno, in un libro-inchiesta che mette a fuoco la storia di coloro che, per assicurarsi il pane, dalla fine degli anni ’50 dovettero migrare a scatti e morsi da una Patria avara al di là della frontiera, sottostando a norme tanto rigide che solo la ferrea volontà di riuscire e la prospettiva di un futuro decente potevano rendere sopportabili.

Con un particolare, che rende unico nel suo genere il volume E qui, almeno, posso parlare? Storia dell’emigrazione italiana a Ginevra. I figli degli emigrati ospiti del “Regina Margherita” al Grand-Saconnex (ilmiolibro.it - Gruppo editoriale l’Espresso, con versione francese, luglio 2011, pp.284, euro 17.50), in quanto l’inchiesta non si basa su fatti visti o sentiti, ma è in presa diretta, e a raccontare, in una sorta di flash-back, sono i diretti protagonisti, oggi nonni sereni, e all’epoca bambini spauriti, piccoli clandestini catapultati in un ambiente ostile.


A fare da catalizzatore e filo conduttore, l’Autrice Barbara Bertolini, emiliana, giornalista e saggista residente nel Molise da trent’anni, che, oltre a raccogliere le varie testimonianze, zooma sulla propria sofferta esperienza vissuta (dal 1958 al 1973) quando, bambina, al seguito dei genitori emigrati in Svizzera, approdò nell’Orfanotrofio “Regina Margherita” del Comune ginevrino del Grand-Saconnex, gestito dalle suore missionarie di Susa, unica ancora di salvezza in terra svizzera.

Ma sbaglierebbe chi pensasse al solito libro sull’epica della valigia di cartone o dei microcosmi familiari annaspanti tra autocommiserazione e rabbia: niente di più distante da E qui, almeno, posso parlare? perché l’A., sguardo affilato e mente libera, con tono misurato, apparente distacco e una franchezza tanto più ammirevole in quanto non fa sconti a nessuno – e men che meno a se stessa – intarsia il suo vissuto con quello dei compagni ex convittori, quasi tutti residenti a Ginevra, rintracciati via internet dopo una quarantina d’anni.

Le storie di quei bimbi provenienti dalle varie regioni italiane, strappati da un giorno all’altro alle loro radici per trovarsi in una realtà socio-culturale per la quale – semplicemente – non esistevano, si intrecciano indissolubilmente con la Storia della Svizzera e quella della Missione Cattolica Italiana di Ginevra.

E qui, almeno, posso parlare?, in effetti, è tanti libri in uno, perché, oltre all’indagine che ne rappresenta l’ossatura, contiene, a firma della Bertolini, una densa ricerca storica sulla Svizzera e sulle varie ondate migratorie che l’hanno interessata, ospita la testimonianza della madre superiora, Suor Scolastica, e del maestro principale dell’epoca, Monsieur Stengel, che ebbero il grande merito di avere fiducia nei piccoli convittori sostenendoli nella loro voglia di crescere, e si chiude con le schiette riflessioni di una delle tante madri italiane emigrate.

Il perché di questo intreccio è presto spiegato: per contrastare i massicci afflussi dei lavoratori stagionali stranieri – che tra il ’50 e l’80 erano per lo più italiani – la Confederazione Elvetica emanò leggi statutarie tali da ostacolarne tanto una vita privata, quanto lo sviluppo professionale e l’affermazione nella società svizzera.

Alla cocente umiliazione, negli anni ’50, di vedersi interdetti certi locali pubblici (il cartello tristemente famoso diceva “Chien et Rital interdit”), si aggiungeva una vita lavorativa durissima. Infatti, essi non potevano cambiare datore di lavoro né lavoro per un certo numero di anni; non potevano parlare in pubblico né protestare, e non potevano portare dall’Italia i figli, considerati – come scriveva sul finire degli anni ’60 l’intellettuale xenofobo James Schwarzenbach – “ (…) braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro di una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini svizzeri. Dobbiamo liberarci del fardello.”

Era questa l’aria che tirava anche agli inizi del Novecento, quando la Missione Cattolica Italiana di Ginevra, in una città profondamente calvinista – ostile verso qualsiasi altra confessione presente sul proprio territorio, al punto che le suore avevano dovuto abbandonare l’abito e farsi passare per dame di carità – mise in piedi una serie di iniziative per dare concreta assistenza agli emigrati italiani, che erano completamente abbandonati dalle nostre autorità.

La Missione riuscì, con notevoli sforzi, ad istituire un Orphelinat nel Comune del Grand-Saconnex, che, trasformato in Internat (Collegio) negli anni ’50, è stato nel tempo rifugio e oasi per migliaia di piccoli italiani, che così hanno potuto ricongiungersi con i genitori.

Tra essi, l’A. e il fratellino di tre anni, Oscar, che, dal 1958 all’Istituto “Regina Margherita, retto con mano ferma dalle suore di Susa, temprati alla scuola della disciplina, della solidarietà e dell’adattabilità, una volta capitalizzata la propria esperienza, hanno scelto la loro strada affermandosi brillantemente nella vita.

Nel 2004 il glorioso Istituto ha chiuso i battenti per fare posto – segno dei tempi – ad una Casa per anziani (EMS), ed è stata quella la molla che ha fatto scattare negli ex bambini la voglia di ritrovarsi tra le mura del vecchio Collegio. Una volta riuniti, loro, figli del silenzio, clandestini che nell’alloggio ginevrino dei genitori non potevano parlare per non farsi scoprire dal padrone della stanza, hanno deciso di raccontare la loro vicenda.

Come? Rispondendo – senza filtri – ad un puntiglioso e asciutto questionario d’indagine da essi stessi approntato, che ripercorre l’intero arco della loro esistenza, dall’arrivo in Collegio fino ad oggi, passando per le scelte professionali e personali.

Non tutti, per la verità, hanno trovato la forza di riaprire uno squarcio faticosamente rimosso, ma i coraggiosi hanno risposto, schiudendo così il capitolo doloroso della loro condizione di bimbi costretti all’invisibilità da una parte, e dall’altra alle prese con la ferrea disciplina del Collegio e la difficile ambientazione nella nuova realtà.

Se, come ha scritto l’Autrice, nell’Orfanotrofio si era riformata l’Unità d’Italia in quanto tutte le regioni vi erano rappresentate, il primo ostacolo che si trovavano davanti i piccoli era la loro dialettofonia, a cui toccava porre immediatamente riparo apprendendo l’italiano per comunicare tra loro e con le suore.

Ma il vero spauracchio, per alcuni insormontabile, quello che li paralizzava, era trovarsi nella scuola pubblica senza capire un’acca di quanto diceva, in francese, il maestro; per giunta, gli italiani scolarizzati erano obbligati a ripetere l’ultimo anno, con il risultato di sentirsi ancora più inadeguati e inferiori rispetto ai compagni di classe, autoctoni e più piccoli.

Bisognerà aspettare il 1991 perché il Cantone di Ginevra, il primo in Svizzera, riconosca il diritto di tutti i bambini lì stabiliti, senza alcuna distinzione, ad essere secolarizzati, e il 2000 perché siano abolite quelle norme-capestro sul lavoro, ma nel frattempo la situazione è cambiata, e, come afferma qualcuno degli intervistati, la seconda generazione – i loro figli ̶ conosce l’italiano come seconda o terza lingua, è laureata, svolge lavori qualificati, viene in Italia per le vacanze.

Portando a galla il nostro passato di emigrati, E qui, almeno, posso parlare?, oltre a scoprire e radiografare certi scenari tenuti celati, ci sollecita a riflettere sull’emergenza immigrati che stiamo vivendo, in primis sull’efficacia delle risposte poste in essere circa le loro effettive opportunità di integrazione; e vale la pena, perché condivisibile, riprendere il pensiero di Oscar, convinto dalla propria esperienza che il miglior modo di integrare i genitori è quello di integrare i figli, cosa possibile solo quando ognuno fa un passo verso l’altro, così come è convinto che per apprendere la lingua degli autoctoni non servono classi “d’accoglienza”, ma basta la full immersion, il contatto diretto, dentro la scuola e fuori.

Uscito in sordina nel luglio scorso, E qui, almeno, posso parlare? , che è anche corredato da foto d’epoca, ha suscitato interesse e apprezzamento presso il Consolato italiano di Ginevra al punto che il volume è stato inserito sul suo sito internet.

Inoltre il Console Generale, Alberto Colella, per rendere omaggio ai tanti bambini italiani passati attraverso l’orfanatrofio del Grand-Saconnex, ha voluto organizzare la presentazione del libro della Bertolini presso la Missione Cattolica Italiana di Ginevra il 12 dicembre 2011. Sono in programma gli attesi interventi dei proff. Rainer Cremonte, maggiore storico della comunità italiana di Ginevra, e di Sandro Cattacin, ordinario di sociologia delle migrazioni e grande conoscitore del fenomeno migratorio in Svizzera.

Rita Frattolillo (articolo uscito su "Il Bene Comune" n.11, novembre 2011)

il libro può essere letto al seguente link:

Nessun commento: