domenica 22 giugno 2014

Spartacus e la meraviglia dell’anfiteatro romano di Santa Maria Capua Vetere



Devo ammettere che c’ero andata senza particolare entusiasmo: avevo visitato nel corso degli anni intere città (Pompei e poi Jerash in Giordania), calpestato arene, strade, Fori, anfiteatri, siti costruiti dai romani antichi in tutti i loro domini, in Europa come in Africa; che c’era ancora da vedere? Mi domandavo. Ma mio marito, imperterrito, me ne parlava da settimane, dopo che ne aveva letto sui magazine di settore:  era l’anfiteatro romano, tra quelli dell’Italia meridionale, dove un tempo  si assisteva alle battaglie navali, ma soprattutto dove  era stato costretto ad esibirsi il gladiatore Spartaco, lo schiavo che, dopo Annibale e i Sanniti, aveva rappresentato una gravissima minaccia per i romani.

Nel 73 a.C.  infatti era riuscito a mettere assieme un esercito di  uomini disperati e pronti a tutto, pur di scrollarsi di dosso le condizioni disumane in cui erano costretti a vivere. La sua storia ha anche ispirato qualche film-polpettone o peplum che dir si voglia, la sostanza non cambia : primo tra tutti quello con un Kirk Douglas-Spartacus muscoloso e scattante…
Ma la  mano ferrea di Roma era stata implacabile, gli insorti erano finiti massacrati negli scontri, come lo stesso Spartaco, e coloro che l’avevano scampata, avevano rimpianto mille volte di non essere morti in battaglia, perché erano stati fatti prigionieri, poi esposti sulle croci lungo il ciglio della via Appia alla vista dei passanti e lì crocifissi come  monito e macabro trofeo. Dove si trova questa meraviglia?chiedo: a Capua antica.



 Questa città fu per molti secoli la capitale della Campania, se non ricordo male, e la sua cavalleria era particolarmente apprezzata. Famosa per la ricchezza dei suoi cittadini e per lo stile di vita elegante delle classi dirigenti, amata dall’imperatore Adriano che vi soggiornava volentieri, situata in un territorio (Campanus ager) talmente fertile da poter offrire fino a quattro raccolti l’anno, Capua è ricordata soprattutto per gli “ozi” di Annibale nel corso della seconda guerra punica (216 a.C), e, appunto, per la sanguinosa rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco.

 In realtà la città, che aveva un rapporto quasi simbiotico con la vicina Cuma, eccelse nell’agricoltura, nelle attività artigianali e nella mercatura, che esercitò con i popoli contermini, ma anche con  greci e  orientali. Ed ebbe a lungo il potere anche grazie all’eccellenza della pratica militare, come dimostrano affreschi e statuette tombali rappresentanti giovani atleti o militari. Un suo concittadino, Publio Sabbione,  si era arricchito enormemente rifornendo di mantelli le legioni romane, e si fece costruire una villa sontuosa di cui rimangono preziose tracce visitabili  nel corso Aldo Moro.

Nel IV sec a.C. Capua, che secondo la tradizione era stata fondata dall’eroe troiano Kapis, assurse ad una influenza tale da poter  guidare autorevolmente la lega delle dodici città etrusche; ma quando, due secoli dopo, tentò di riassumere un ruolo autonomo nella politica italica rispetto alla dominazione romana alleandosi con Annibale, vide decimata la classe dirigente e perse ogni autonomia politica e amministrativa.

 Fortunatamente ogni volta la città si rialzò, grazie alla determinazione dei suoi abitanti e alla ricchezza del suolo, finché l’incursione saracena dell‘841 non li costrinse a disperdersi in tre borghi raccolti intorno a tre chiese, tra cui quella di Santa Maria. E fu proprio l’ultimo dei tre borghi a dar nome alla ripresa dell’occupazione in chiave urbana dei luoghi a partire dal XVIII sec., con il progressivo sviluppo dell’attuale Santa Maria Capua Vetere. I Borboni scelsero la nuova città come piazzaforte militare per la sua posizione strategica nei confronti della Reggia vanvitelliana di Caserta.

Arrivando nell’antica Capua,  idealmente separata dall’attuale  Santa Maria C.V. dall’Arco di Adriano, all’incrocio tra la via Appia e la via Anfiteatro  vedo ergersi in tutta la sua magnificenza la struttura enorme, stagliata contro lo sfondo azzurrognolo dei monti tifatini.

 Questo anfiteatro campano, che, dopo il Colosseo, è il più grande tra tutti quelli fatti costruire dai romani, risale ai tempi di Giulio Cesare (I sec. a.C.), anche se fu ampliato in epoca successiva. Oggi è annunciato da un bel viale costeggiato da due scarpate coperte dal prato e scandito da salici e tigli profumati.

Mi sorprende la solitudine e il silenzio del luogo: né bus turistici, né bancarelle di cianfrusaglie o risto-bar, niente di tutto ciò che assedia tristemente i siti più gettonati. Evidentemente, Capua antica  è rimasta fuori dal business dei tour-operator, e non so se sia un male…Comunque, tutto il sito è denso  di significato e il paesaggio intorno è spettacolare. Nell’attrezzatissima biglietteria-bar-ristorante book-shop acquisto, tra l’altro, un libro storico a fumetti (edizioni Spartaco, manco a dirlo!) molto divertente e istruttivo firmato da una pedagogista e da un architetto del posto.


Il ticket, dalla cifra irrisoria, include la visita al museo e al mitreo, che si trovano ad una manciata di minuti.

La costruzione, di forma ellittica, era alta 46 metri, ed era costituita da quattro piani, di cui tre formati da 80 arcate ; l’ultimo piano, in muratura, era riservato alle donne in una zona detta cathedra, mentre i nobili, i magistrati e i sacerdoti,  occupando il primo piano (podio), potevano godere lo spettacolo da vicino. Sulle gradinate, dette cavee, erano sistemate le altre classi sociali, ben divise secondo il ceto.  La summa cavea era sovrastata da un portico ornato con statue e colonne.



Gli ingressi principali coincidevano con i quatto punti cardinali: le quattro arcate più alte rivestite di marmo bianco, sormontate al centro dai protomi (volti di divinità che coprono la chiave di volta) permettevano l’accesso solo alla parte della platea riservata ai nobili; lateralmente, sono visibili le gallerie che conducevano la “plebe” all’interno.
Qua e là vedo disseminati sul prato  diversi fusti di colonne, edicole scolpite, capitelli, conci, mentre il monumento conserva ancora qualche rivestimento in marmo, che trionfa al sole. Un po’ più giù si intravedono delle tombe (forse del IV sec. a.C.) con affreschi parietali appena visibili.

 L’anfiteatro  ha, come la città, una storia tormentata, e ciò che è sopravvissuto a secoli di devastazioni e ruberie è custodito nel museo archeologico di Napoli e in quello provinciale campano (che merita la visita, oltre che per il museo suoni e luci didattico e il bellissimo Satiro del greco Prassitele, per il ricco corredo di anfore, gioielli,  tombe, maschere teatrali, e la statuaria, tra cui l’ineguagliabile Mater Matuta, simbolo della fecondità femminile).  Ha subito rovinose distruzioni anche per i saccheggi che si sono ripetuti nel tempo, non ultimo quello dei Vandali guidati da Genserico (456 d.C.).  Sotto i Longobardi Capua continuò ad essere una delle principali città della Campania, tanto che i vescovi di Benevento nel 787 è lì che accolsero e resero omaggio al futuro Carlo Magno.



 Nell’841 d.C., quando i Saraceni distrussero la città, il monumento venne trasformato in una fortezza. Durante la dominazione sveva divenne cava di estrazione di materiali lapidei reimpiegati per costruire gli edifici della città, che nel periodo angioino ospitò la famiglia reale: infatti qui nacque Roberto d’Angiò, e ancora oggi un’arteria importante è intitolata a lui.  

Espressione armoniosa dell’incrocio della civiltà etrusca - a cui si deve l’invenzione dell’arco che qui trionfa – con quella greca, sannitica e infine romana (che invece adoperava la tecnica dell’architrave), questo fu anche il primo anfiteatro provvisto di velarium, che, secondo la leggenda, fu progettato dai capuani per proteggersi dal sole.
 Si trattava di un grande tendone che fungeva da copertura, che i Romani prima irrisero accusando i capuani di mollezza, poi, però, pensarono bene di appropriarsi dell’idea, replicandola anche nel Colosseo.

Attraverso lunghe scalinate scendiamo nei sotterranei, una selva ordinatissima di archi incolonnati ad angolo retto; oggi c’è il sole, che illumina bene i muretti rivestiti di muschio e ogni anfratto,  immergendo questo ambiente enorme in una atmosfera magica che mi proietta secoli addietro. Sembra di rivivere le scene viste in tanti film, ultimo Il Gladiatore con Russel Crow, il ruggito delle belve impazienti di uscire nell’arena, i gladiatori occupati a completare la loro armatura, mentre afferrano lo scudo, la daga o la rete, indossano l’elmo e gli alti gambali…..

 Torniamo in superficie.
 Sul lato orientale è ancora visibile, tra l’erba, una cisterna in opus reticulatum in cui si raccoglieva l’acqua per la pulizia dei sotterranei, più in là  i resti di una fontana monumentale a forma ottagonale. Il lungo muro di fronte alla biglietteria è coperto da un interessante e coloratissimo graffito con l’immagine di un gladiatore coperto dall’elmo, evidente rimando al museo dei gladiatori ubicato nei pressi del monumento.

Appena vi si entra, si nota l’allestimento di una scena di combattimento tra gladiatori e un leone (completa del vocìo tipico di questi spettacoli); seguono delle teche contenenti l’armatura dei gladiatori, cartelloni informativi, e infine, l’ultima sala mostra diversi pezzi di fregi ornamentali provenienti dall’anfiteatro; molte le divinità, tra cui un Ercole scolpito nell’atto di compiere qualcuna delle sue fatiche; la popolarità di questo semi-dio non mi sorprende, perché presso tutto il mondo antico Ercole è stato l’oggetto di un culto molto sentito e diffuso, in particolare presso i Sanniti. I quali hanno lasciato in eredità il nome del monte Tifata, prestato poi come attributo alle divinità alle quali in quest’area sono stati dedicati dei templi: Diana,  Iana (la Giunone dei Romani) tifatina.

 Proseguendo nella visita del museo, trovo notevoli i plutei frontonali e le balaustre dell’anfiteatro, scolpite con animali esotici e scene di caccia, mentre i vomitoria (varchi di accesso agli spalti) fungevano da corrimano ai lati degli ultimi scalini.

 Poco distante dall’anfiteatro andiamo a visitare il museo e poi il tempietto ipogeo del dio Mitra (Mitreo). Questa divinità, che era originaria dell’Asia Minore, aveva a che fare con la cosmogonia, ed ebbe un culto molto diffuso anche in Occidente, finché non fu assorbito - per certi versi “travasato”- nel Cristianesimo.


I Romani se ne appropriarono - come avevano fatto con le altre divinità - e lo raffigurarono con un’aureola di raggi solari,  denominandolo “Sol Invictus”, sole invitto.

 In realtà il suo culto è legato al mito del toro, animale che Mitra dovette sacrificare per obbedire al dio Sole e far sì che il pianeta continuasse a vivere.  Nel tempietto che visitiamo le parete di fondo presenta la scena dell’atletico, giovane dio con mantello rosso e  berretto frigio nell’atto di uccidere un grosso toro bianco. Sui lati, corrono due lunghi canali rialzati, dove presumibilmente alla presenza dei sacerdoti e degli adepti durante le cerimonie sacre scorreva il sangue dell’animale sacrificato.

 L’affresco principale è conservato piuttosto bene, mentre quelli parietali, a causa della elevatissima umidità, sono ormai poco visibili.

Nella maggioranza dei culti italici, come  in quello dei sanniti, è presente il culto del toro, sia pure con sfumature e significati diversi.

 I giovani sanniti che dovevano fondare un nuovo villaggio, ad esempio, seguivano il toro,  e si affidavano alla direzione da lui presa: era il famoso rito del “ver sacrum”, la primavera sacra. Piantavano le tende nel luogo in cui si era fermato l’animale, convinti che quel sito fosse propizio proprio perché scelto dall’animale; era così radicato il culto per questo animale, simbolo di forza e potenza fecondativa, che i Sanniti si chiamarono “vitelios”, nome che è passato a indicare l’Italia (Viteliù), come testimoniano le incisioni sulle monete sannitiche.

La cosa, ovviamente, non mi sorprende, ma è semplicemente l’ennesima conferma del crogiuolo che è sempre stato il bacino del Mediterraneo, dove si sono scambiate e mescolate culture, tradizioni, miti, usanze provenienti dalle sue varie parti fin dalla notte dei tempi. E questa “esplorazione” nell’antica Capua è stata, in definitiva, una buona occasione per fare un tuffo nelle nostre radici italiche.
©2014 Rita Frattolillo – tutti i diritti riservati

Il satiro in riposo statua del museo di Santa Maria Capua  Vetere

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