giovedì 9 giugno 2016

Civitacampomarano (Campobasso) ieri e oggi





Rita Frattolillo 

 Eccolo, finalmente! Dopo una serie infinita di tornanti e curve su  un fondo stradale piuttosto dissestato, all’improvviso appare il paese, stretto intorno all’imponente castello, che sembra proteggere  il groviglio di strade e di tetti rossicci del borgo antico di Civita, 36 km dal capoluogo Campobasso.
Il viaggio è stato più lungo del previsto, ma molto pittoresco, un’ immersione totale in un pesaggio ondulato tra le alture  dalle mille sfumature di verde, quello tenero e fresco della primavera che si fa largo.
Lungo il ciglio, eleganti steli della malva fiorita e pseudoacacie dai grappoli bianchi. 
Il loro  profumo intenso irrompe nell’auto inebriandoci.
  A guastare l’armonia, un’orribile infilata di pali eolici sul crinale, proprio presso Lucito, paese natale del pittore  molisano a me caro, Antonio Pettinicchi.
Il cartello stradale di Castelbottaccio, nome indissolubilmente legato a quello della baronessa illuminista Olimpia Frangipane, ci segnala che la nostra meta è prossima.

 Da sempre, ogni volta che sentivo   pronunziare “Civita”, la mia mente immediatamente associava quel suono a due personaggi che per me hanno incarnato l’espressione più alta dell’intelligenza tesa a migliorare le sorti del Molise, terra a cui entrambi sono stati  intimamente legati, pur se le vicende delle loro esistenze li hanno tenuti fisicamente distanti: Gabriele Pepe e Vincenzo Cuoco.




Centro di grande vivacità culturale nel Settecento, Civita è infatti il luogo di nascita del generale Pepe e di V. Cuoco; il primo, uomo di spada e di penna,  esponente del Circolo fiorentino del Vieusseux; il secondo, avvocato, storico e filosofo, tra i promotori della Rivoluzione napoletana del 1799 e poi consigliere di Gioacchino Murat.
Sono percorsa da una leggera ansia, per me questa visita tanto attesa è un’immersione nella storia molisana e dell’Italia meridionale.
Il paese ci accoglie con un grande murale: una bimba in calzoncini corti ci guarda con occhioni indagatori.
 Sì, lo so, nell’aprile scorso (2016) diversi artisti di strada guidati dalla direttrice artistica del festival street art Alice Pasquini si sono cimentati ad abbellire con scene di vita quotidiana, giochi infantili di una volta e immagini della tradizione i muri del paese, che oggi è ridotto a tre-quattrocento abitanti.
Spopolato come molti altri.



Ma lindo e pieno di fiori alle finestre e ai balconi. Dopo aver girovagato su e giù per  stradine (la toponomastica aiuta) e scalinate alla ricerca della dimora storica di Gabriele Pepe (abitazione privata, ci dicono) e di Vincenzo Cuoco (finalmente troviamo una piccola targa di ottone  che ci garantisce di non esserci sbagliati, è proprio quella!), io  saluto alcune anziane sedute davanti alla loro porta  e accetto volentieri una sedia e la  loro compagnia.
 Sembra di vivere in un’altra dimensione, di andare controcorrente, tanto ci sovrasta il silenzio.
Sono tentata di darmi un pizzicotto: né rombi di motori né voci, intorno.
 Le donne sono ben disposte e raccontano senza giri di parole  che i giovani sono fuggiti altrove  in cerca di lavoro: Civita non offre niente o quasi, un niente che intristisce anche i “vecchi”; pur se - aggiungono - il giovane sindaco Paolo Manuele si dà molto da fare per rivitalizzare il paese, e si dicono  mirabilia del nuovo corso impresso da lui, all’insegna della rinascita del paese, della valorizzazione delle sue peculiarità e della rigenerazione urbana.
 Sapevo qualcosa della nuova strategia di Manuele.
 Dopo aver aderito al sodalizio “Borghi autentici d’Italia”, che conta oltre 280 comuni, il sindaco ha  attivato la pro Loco grazie all’impegno di ragazzi volontari, e ci si è  pure collegati con l’Università degli studi di Parma,  che nel settore delle scienze enogastronomiche rappresenta la punta di diamante italiana, per valorizzare certi prodotti dolciari.
Né si è trascurata la visibilità - dal momento che oggi più che mai essa è l’anima non solo dell’apparire, ma anche dell’essere - aprendo una vetrina internazionale a Coventry, in Gran Bretagna, per trattare la vendita di immobili molisani.
Tutto questo asset strategico sta cominciando a funzionare - avevo letto - tanto è vero che diversi edifici sono stati acquistati da stranieri e sono in via di ristrutturazione, come possiamo constatare con i nostri occhi.
Vincenzo Cuoco
Un’ulteriore fase di questa strategia condivisa comprende un piano di microricettività, e a questo scopo è stata già ristrutturata la casa natale di V.Cuoco.

Tuttavia,  durante la nostra breve permanenza, non abbiamo modo di notare movimento di stranieri, incrociamo solo turisti  italici, che si guardano intorno curiosi.
Attirati non solo dai tanti, artistici murales, ma anche dagli scorci caratteristici che non si aspettano, archi e scalinatine molto pittoreschi che rimandano ad un’atmosfera antica, senza tempo.
 Lungo la  bella cinta muraria invariabilmente ci si sofferma davanti all’ampio panorama graffiato dai calanchi e punteggiato dai cespugli delle ginestre fiorite che trionfano sul tappeto verde con il loro giallo lucido e brillante.
 Per ultimo, prima di congedarmi, chiedo alle gentili signore se hanno figli.
 Sì,  lavorano in Toscana e in…. Colorado.
 Andate a trovarli ?Chiedo; ammettono che no, non vanno mai.
Non percepisco ombra di tentennamento o rimpianto nella loro voce, che è chiara e ferma; e il famoso “mammismo” italiano dove è finito? Il pensiero attraversa la mia mente rapido come un fulmine.
Ma queste che ho davanti sono donne concrete! -  mi rispondo…. Discendenti da generazioni di emigrati che sanno l’importanza della “giobba”, oggi più di sempre…

Ma la visita che non posso perdere, qui a Civita, è quella del castello, che nel ‘400 fu donato da Alfonso d’Aragona  a Paolo di Sangro, suocero di Cola di Monforte, per il sostegno avuto contro gli Angioini. Ma a quell'epoca - non diversamente da oggi - le alleanze politiche e di famiglia si facevano e si rompevano con grande...disinvoltura: tutto dipendeva dai compromessi, dagli interessi e dai benefici reciproci. Su uno stemma, infatti, sono tuttora visibili i gigli di Francia, mentre molti dettagli architettonici rimandano allo stile aragonese...
E' un castello carico di Storia: tra le sua mura venne stipulato solennemente il contratto nuziale tra Cola di Monforte e la giovane Altabella di Sangro, alla presenza di vescovi e baroni, avvocati e arcipreti. Nessuno poteva immaginare in quei giorni di tripudio per tutta la parentela di Sangro, che esistenza sventurata sarebbe toccata alla leggiadra donzella, la cui vita sarebbe stata stroncata per un sospetto di infedeltà coniugale dallo stesso marito, uno dei condottieri più rappresentativi del  Quattrocento italiano, quale era giustamente considerato per la sua perizia nelle armi e nella strategia bellica Cola, detto comunemente "il Campobasso"....


Il castello con la sua mole incombe sul paese, sembra fuori scala per quanto è imponente rispetto all’esiguità della cittadella!
 Basamento assai importante, e torri d’angolo secondo l’usanza angioina.
Il dépliant turistico  informa che si tratta di roccaforte ad uso difensivo progettata nel  Quattrocento dal senese Francesco di Giorgio Martini, esperto di architettura militare.
I vari ambienti sono ammobiliati con un occhio attento allo stile Ottocentesco, ma cercando di recuperare utensileria e materiale in armonia con la destinazione d’uso originaria dei vani: ammiriamo tra l’altro una tinozza metallica per neonato provvista di ruote, un calesse,  e molti orci.
Gli arnesi, realizzati con materiale povero, pietra, legno, terracotta, richiamano la nostra attenzione soprattutto quando non ne comprendiamo l’uso.


 Le grandi botti riportano alla mente i gesti che ricordiamo, quelli legati alla pigiatura dell’uva per la produzione del vino.
 Il lungo sotterraneo, bello come una galleria,  è illuminato dalle feritoie a forma di croce.
Questo “museo”, accogliendo arredi e utensili, oggetti di vita quotidiana, risulta una struttura attiva, pronta a rinnovarsi e ad ospitare altri segni dell’operosità umana.
Una collezione etnografica in nuce ma già significativa, già capace di evocare la storia della comunità civitese.
Delle tre chiese che arricchiscono il borgo, una mi interessa particolarmente, S. Maria Maggiore,  perché dà sul largo del castello.
 Ma ad essere sincera il mio non è un interesse artistico, bensì…sentimentale.
 Perché è lì che il  diciassettenne Gabriele Pepe si prese la prima cotta, e intendo finalmente vedere con i miei occhi questo posto che ho immaginato un’infinità di volte, calpestare lo stesso pavé di allora…
Ma sentite come è andata.

Dunque una domenica mattina dell’anno di grazia 1796 Gabriele si vestì con più cura del solito.
Si spazzolò la camiciola chiara col collo alto e il pantalone aderente alla francese,  si passò il pettine tra i folti ricci biondi.
L'occhiata rapida che lanciò allo specchio prima di gettarsi sulle spalle il tabarro scuro, uscendo, gli rimandò l'immagine di un giovane pallido - non si era ancora ripreso da quel dannato intervento alla vescica - con le guance appena ombrate da un'incipiente peluria.
Tanta cura perché quella mattina era speciale: Gabriele sentiva di essersi  innamorato, ma sul serio;
non una cottarella qualunque, di quelle che passano veloci senza lasciare segni, ma un amore  che gli toglieva il sonno.
Si avviò in tutta fretta verso il piazzale del castello Angioino, perché di lì a poco  lei sarebbe passata, accompagnata dai genitori, per andare alla messa solenne di S. Maria Maggiore.

La scalea d'onore del castello


Questo lato sentimentale del Generale viene fuori  leggendo il diario Galimazias (rimasto a lungo manoscritto e in parte distrutto), che Gabriele Pepe iniziò nel 1807 con l'intenzione di "buttarvi tutto quello che mi veniva in testa di scrivere, avventure, osservazioni, varietà, pensieri e delusioni", tra le  difficoltà di uomo spasmodicamente diviso tra Marte e Minerva, tra l’impegno delle strategie militari e il gusto per i rovelli letterari.
 I suoi numerosi biografi hanno consumato fiumi d’inchiostro sull'uomo d'arme e sul patriota, col risultato  che si ricorda di lui esclusivamente il celebre duello sostenuto nel 1826 con l'incauto poeta e uomo politico francese Alphonse de Lamartine che, definendo l'Italia "terra di morti", aveva suscitato il risentimento di Gabriele, da allora  soprannominato "gallo italico".
Su Pepe uomo di lettere e autore prolifico sembra invece essere calato un velo, evidentemente propiziato dalla spettacolarità  che si fece del duello a fini di comprensibile propaganda nazionale.
Quindi neanche di questa sublime love-story del bel Gabriele, un amore giovanile  durato testardamente tutta la vita,  si è mai saputo nulla.

Monumento a Gabriele Pepe, Campobasso

Fatto sta che tra una pagina e l'altra del Galimazias - vera miniera per chi voglia avvicinarsi all'uomo - tra le fatiche delle guerre, i fuochi notturni negli accampamenti, le peripezie dell'esule, affiora qua e là il ricordo struggente di quell'impetuoso amore giovanile.
In data 1807 trovo questa confidenza:
"All'età di 17 anni una grande rivoluzione si operò in tutto il mio essere, sia mediante la guarigione da una grave malattia (l'operazione alla vescica), sia mediante l'Amore.
Cupido vibrò ad una tale età il suo dardo: io ebbi la prima passione e l'unica, l'azione della quale risento ancora dopo dieci anni, e probabilmente risentirò in tutta la mia vita".
Parole profetiche, poiché fino alla fine dei suoi giorni lo accompagnerà il ricordo struggente di Luisa.
Ma chi era, in realtà, questa ragazza che gli era entrata con tanta prepotenza nel sangue?
Sicuramente i due ragazzi, entrambi di Civitacampomarano, si erano visti in una delle occasioni "canoniche" dell'epoca,  cioè l'uscita dalla messa o la festa del Santo patrono, come dire la discoteca o la “vasca” per il Corso di allora….
Luisa De Marinis, tratti delicati, bocca piccola e incarnato chiaro, aveva attirato immediatamente l'attenzione del giovane.
Il matrimonio poteva essere lo sbocco naturale di quella passione profonda, ma le nozze che lui desiderava con tutte le sue forze non avvennero né allora né mai, perché De Marinis padre, borbonico e conservatore come molti  a Civita, non vedeva di buon occhio i Pepe, che considerava rivoluzionari giacobini, ubriacati dalle nuove idee, come del resto i loro cugini, i Cuoco.
 Non per niente - doveva pensare il De Marinis - la madre di Gabriele, Angelamaria, era la zia di quel Vincenzo Cuoco che faceva tanto parlare di sé. Ma si sa, la malapianta delle novità attecchisce subito in certa gente, che si riempie la bocca con parole grosse come libertà, uguaglianza.. e Dio solo sapeva che altro si complottava nel salotto di Olimpia Frangipani a Castelbottaccio.
Ma - ragionava tra sé De Marinis - come poteva, la baronessa, alimentare gli stessi ideali rivoluzionari che avevano fatto cadere, neanche dieci anni prima, la testa di migliaia di aristocratici francesi?
Valli a capire, i nobili!


 Comunque, avevano fatto bene a dare una lezione a quel senzadio di Marcello Pepe, mandandolo in galera a Lucera, perché pure lui faceva parte della combriccola di Castelbottaccio.... anche se in fondo gli dispiaceva per i sei ragazzi, già orfani di madre (Angelamaria, pace all'anima sua, se n'era andata già da due anni).
Quel giovanotto che aveva messo gli occhi sulla figlia, il terzogenito di Marcello, sì, Gabriele, forse era un pò indolente negli studi ma era stato educato bene dallo zio gesuita, don Francesco Maria; comunque, uno cresciuto tra "sovversivi", senza madre né padre, che avvenire poteva dare alla sua Luisa?
Un buon partito, ecco cosa ci voleva per sua figlia!

Gabriele, dopo un’attesa che gli parve eterna, finalmente vide comparire Luisa all’estremità del piazzale.
Il corpetto e la gonna a pieghe di tessuto leggero lasciavano intuire le sue forme snelle ma piene, e la piccola mappa di raso nascondeva a malapena la massa biondo grano dei lunghi capelli appena mossi.
Rapito da quella visione, Gabriele la fissò in volto, e rimase sconcertato dal suo sguardo accorato.
Vi lesse la sua condanna quando, attraversando il piazzale in direzione della chiesa, lei fece in modo di passargli  vicino  sfiorandolo.


Mamma De Marinis, chioma raccolta secondo il costume delle donne maritate, tirò dritto.
 Lo stesso fece il padre, ma Luisa non poté fare a meno di alzare lo sguardo dolce e mesto su Gabriele, che si sentì percorrere da un fremito per tutte le membra.
I tre sparirono nel portale buio di S. Maria Maggiore, e del fugace passaggio di Luisa  gli rimase nella testa solo la scia del suo profumo, che sapeva di buono…
Amareggiato e deluso, il giovane  scappò via da Civita, pronto ad abbracciare la carriera delle armi, a cui del resto si sentiva fortemente incline, distinguendosi, oltre che per valore di soldato e di letterato, come il patriota insigne e generoso che conosciamo.
La Repubblica partenopea lo trova impegnato sui campi di battaglia, e il 14 giugno 1799 è ferito e preso, rinchiuso nelle carceri della Vicaria.
Solo la prima di una lunga serie di peripezie che si intrecceranno con i successi militari e letterari.
L'effimera Repubblica partenopea viene soffocata nel sangue e sfocia nella feroce repressione sanfedista: molti centri del Contado di Molise, come Casacalenda e Civita - dove anche casa Pepe viene saccheggiata - sono teatro di luttuosi episodi di violenza fratricida.
A Napoli, lo "spettacolo diabolico" di alcune "damigelle" , nel 1812,  acuisce in lui il rimpianto per quell'amore angelicato: "Quanta differenza tra queste donne e L…
Ma! Che dissi? Ardisco io rabbassarla con una sì vituperosa comparazione? No. Resti ognuno al suo posto.
L.. nel suo candore, nella sublimità delle sue virtù, nella perfezione morale del suo cuore, e fisica dell'angelico volto; queste nel lezzo della civetteria e della corruzione."

Parole che ci consegnano un Gabriele rivoluzionario  sì, ma moralista.
Nel 1814, gravemente ferito nei pressi di Macerata nel corso degli scontri che segnano la fine del regno murattiano, viene riportato a Civita per la convalescenza e in questa occasione confessa:
 "Mi rammento di essermi arrestato sul Monte S. Angelo Altissimo e salutai di là la mia terra natale con una specie di santo entusiasmo. Io provai un'estasi di gioia e consolazione al pensiero che era presso a rivedere i miei fratelli, i miei parenti, i miei compaesani e quell'angelo infine di beltade e virtù che è stato l'oggetto del primo ed unico amore, e che io amo ancora".
In verità l’ angelica signorina De Marinis andò in moglie all'illustre giureconsulto Zaccaria Padulo.



 Un’unione apparentemente irreprensibile, dietro la quale però alcuni storiografi fanno intravedere un matrimonio subìto e una passione segretamente ricambiata per un altro… Pepe.
Uno di loro, Raffaele De Rensis, arriva a buttar lì una frase che vale da sola la trama di un romanzo tutto da scrivere quando afferma che le eccessive "affezioni" della signora Luisa Padulo verso il nipote di Gabriele, Marcellino, "rivelavano i suoi sentimenti".
Che  voleva dare a intendere, De Rensis?
 Che tra Gabriele e Luisa ci fosse un amore impossibile ma reciproco?
 Che la sottomessa Luisa, non trovando il coraggio di rompere il rigore delle convenzioni  per fuggire col bel compaesano, si accontentasse di rimpianti e ricordi?


E non potrebbe magari essere che, in fondo in fondo, la vera vocazione di donna Luisa De Marinis fosse proprio quella della signora alto-borghese, e che la sua "affezione" per Marcellino fosse semplicemente un modo grazioso, e sopratutto comodo, per riscattarsi di tante pene d'amore inflitte a Gabriele?
Mentre guardo ancora una volta questo angolo racchiuso tra la scalinata che sale al castello e la chiesa, teatro di quell’amore infelice, penso che l’enigma che mi ha portato qui si sbroglierà solo se  qualcuno avrà la chance di una lettera segreta o di qualche  gossip del tempo.
Intanto, ancora una volta,  largo alla fantasia.                 



Rita Frattolillo © Tutti i diritti riservati 2016








1 commento:

Barbara Bertolini ha detto...

Bellissimo pezzo, un reportage con i fiocchi per una pese che merita di essere visitato.