venerdì 9 dicembre 2016

Il castello di Gambatesa (Molise), gioiello dell'arte rinascimentale


  Rita Frattolillo
         
Quando si torna a Gambatesa, paese affacciato sul lago di Occhito, uno specchio d’acqua incastonato nello splendido panorama della valle del Tappino, a una trentina di  km. dal capoluogo Campobasso, non si può fare a meno di apprezzare l’ospitalità degli abitanti, che qui sono circa 1500, e il  notevole decoro urbano;  dopo qualche giro nel lindo centro storico, si sale fino al colle Serrone, dove si erge il castello.

 Qui la visita è obbligatoria, per poter  ammirare con  rinnovato interesse e piacere  i mirabili affreschi di Donato Decumbertino  (Da Copertino) che ne decorano le stanze.
Passando da un ambiente all’altro, la mente va immancabilmente allo splendido e sontuoso volume pubblicato nel 2003 da Franco Valente, mente vulcanica votata con la più grande verve  e altrettanta competenza alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico del territorio molisano.
L’architetto Valente, in quegli anni direttore della collana “Castelli del Molise” per le Edizioni Enne di Enzo Nocera, ha contribuito notevolmente, specie  grazie alla pubblicazione di svariati saggi e studi storico-artistici, ad accendere l’interesse su periodi poco indagati del nostro passato.

 Nel  volume “Il castello di Gambatesa - Storia Arte Architettura” (completato da una corposa Appendice) corredato da un ricco  repertorio fotografico, Valente si è “divertito” a sciogliere un  intrigante enigma basandosi sulle poche tracce, arrivando ad aprire una porta sulla Storia del Cinquecento molisano. Procedendo con grande passione e molto acume, ha  infatti ricercato tutto quanto potesse gettare luce sull’identità e i contatti artistici di Decumbertino, pittore sconosciuto fino a qualche decennio fa, e autore del ciclo di affreschi commissionatogli  alla metà del Cinquecento dal potente feudatario Vincenzo De Capoa (di Capua).

Un’impresa pittorica che, per il suo significato complessivo e la sua valenza artistica, rende la bianca massa compatta del maestoso castello che l’accoglie una perla rara del Molise.
La lunga e laboriosa ricerca condotta da Valente con rigoroso metodo scientifico supportato da una ricca documentazione è per il lettore un viaggio affascinante e allo stesso tempo un bell’esempio di ricostruzione fondata sulla filologia delle pietre e l’analisi comparativa, metodo che può adottare solo chi ha una vasta preparazione nel campo specifico.
Per quanto riguarda il castello, è attraverso l’analisi delle trasformazioni e degli adattamenti subiti in epoche successive dal maniero - il quale dall’ originaria struttura longobarda si configurò, nel periodo angioino, come un fortilizio e residenza feudale, divenendo con ulteriori modifiche palazzo rinascimentale - che l’A. risale lungo i fili dell’ingarbugliata trama delle dominazioni e invasioni che hanno caratterizzato questa parte del Molise, muovendosi con agilità tra arte, storia e architettura.
 Una trama complessa, in cui si intrecciano papati e regni, alleanze di famiglia e interessi politici, e dove si stagliano condottieri come Riccardo Pietravalle, che nel XIII sec. per le sue gesta militari e la sua abilità diplomatica  fu apprezzato tanto dalla corte partenopea quanto da quella papale, divenendo per questi meriti feudatario di Gambatesa.
Non avendo avuto eredi maschi, il feudo passò al nipote Riccardello, figlio di Sibilia di Gambatesa  e di Giovanni Monforte, dalla cui discendenza nacque un altro grande condottiero, Cola  Monforte conte di Campobasso. Intanto, si faceva avanti una nuova famiglia, quella dei De Capoa, all’inizio grandi proprietari di armenti,  che, grazie a quest’attività molto redditizia, negli anni  aumentarono il loro credito e  potere.
Tanto redditizia da spiegare l’esistenza di una serie di torri  sorte  strategicamente proprio in prossimità dei tratturi, le “vie della lana” percorse durante la transumanza delle pecore dall’Abruzzo alla Puglia e viceversa.  Probabilmente edificate come torri di avvistamento e guardia, esse  vennero in seguito  destinate soprattutto al controllo del passaggio degli armenti, loro fonte di grande ricchezza.
Tra la fine del ‘300 e gli inizi del ‘400  la famiglia faceva già parte dell’entourage della corte napoletana, se un De Capoa, Andrea conte di Altavilla, risultava essere il migliore amico di Ladislao di Durazzo.
Nel ‘500 la casata raggiunse l’apice del potere e dell’espansione  territoriale, arrivando a possedere nel Molise oltre una trentina di feudi, tra cui Gambatesa, grazie alla valorosa impresa di Matteo De Capoa che nel 1480 aveva sconfitto nella battaglia navale di Otranto i turchi di Achmed Pascià.
 Battaglia che è raffigurata con dovizia di particolari in uno dei grandi affreschi del castello, a ribadire, oltre al prestigio del nome, la posizione antiturca del committente dell’opera, Vincenzo.
Quali furono dunque le vere ragioni che indussero il feudatario a commissionare la decorazione del maniero?
Analizzando i temi degli affreschi -tutti profani - Valente ha ricostruito la  personalità e i  gusti del committente.
Il quale  doveva essere affascinato dalla mitologia e dalle “Metamorfosi” di Ovidio in particolare, dal momento che ne aveva fatte rappresentare alcune, a cominciare da quelle di Zeus, pronto a trasformarsi in giovenca, cigno o polvere d’oro pur di possedere una fanciulla.

Le scene delle metamorfosi sono state eseguite da Decumbertino con molta “reticentia”, facendo intuire più che mostrando, il che rimanda ad un altro aspetto della personalità del feudatario. A cui piacevano i libri, tanto che  fece dipingere una libreria  trompe-l’oeil, ma con la particolarità che i tomi sono rappresentati in disordine, per significare sia la costante consultazione da parte del proprietario, sia per celarne  il titolo. Quindi non sapremo mai quali fossero i gusti letterari  di Vincenzo De Capoa, a parte la sua evidente passione per la mitologia.
Procedendo con il metodo delle affinità iconografiche e/o stilistiche, su questa libreria finta Valente, ad esempio, ha avanzato l’ipotesi che Decumbertino conoscesse il quadro di Colantonio, il “San Girolamo” situato nel polittico della chiesa di San Lorenzo a Napoli, che rappresenta per l’appunto una libreria simile. Ergo, l’ambiente in cui l’artista avrebbe maturato le sue esperienze giovanili, sarebbe molto verosimilmente quello napoletano.
 Continuando ad analizzare gli affreschi, appare chiaro che De Capoa  avesse la necessità di far illustrare le sue virtù di feudatario giusto, tanto che una spaziosa sala è dedicata alle figure allegoriche della Prudenza, della Fortezza, della Clemenza,della Carità, Fede e Giustizia.

 La sorpendente affinità - si direbbe fotocopia - della figura femminile della Fortitudo di Gambatesa con quella della Concordia affrescata nel Palazzo della Cancelleria a Roma, e altre somiglianze iconografiche con le opere ospitate in importanti palazzi romani, hanno indotto Valente  a ipotizzare la presenza, a Roma, di Decumbertino, probabilmente in veste di discepolo di Giorgio Vasari. Infatti  l’artista fiorentino, che aveva ricevuto l’incarico di decorare nel palazzo della Cancelleria un salone (poi chiamato “dei Cento giorni”),  per accelerare i lavori si servì di diversi allievi (di cui peraltro non rimase contento). A tale proposito girava all’epoca un aneddoto: a Vasari che si vantava con Michelangelo di aver decorato quel salone in soli cento giorni, Michelangelo rispose laconico: “Si vede!”, alludendo alla cattiva qualità delle decorazioni.

 Comunque sia, le figure femminili, collocate scenograficamente con grande effetto plastico, sono straordinarie, per la forza che emanano e lo sfolgorio della tavolozza.
 Magnifiche sono anche le “grottesche” eseguite dal pittore, anch’esse scoperte in quegli anni a Roma, nella Domus Aurea di Nerone (a cui si accedeva attraverso una grotta, da cui il nome), e quindi “copiate” dagli artisti del tempo.
Anche il notevole numero di ariose vedute della campagna laziale e di Roma (il ponte rotto dell’Isola Tiberina con il tempio di Venere,  i Fori imperiali, il ponte di Tivoli sull’Aniene, il complesso di San Pietro con il Colosseo sullo sfondo e la  presenza dell’obelisco) conferma la conoscenza dei luoghi da parte del pittore, e quindi accredita la sua presenza a Roma.

 Questa formidabile - e convincente -  ipotesi dettata a Franco Valente dalla sua grande esperienza è stata indirettamente confermata da una studiosa francese, Nicole Dacos, nel volume “Viaggio a Roma- I pittori europei nel ‘500”(Milano, Jaca Book 2012), la quale scrive:
“[…]varie fonti segnalano la presenza di pittori stranieri che lavorano nei cantieri di Perin del Vaga, dei fratelli Zuccari, di Vasari e di molti altri artisti italiani che, per realizzare velocemente cicli di affreschi nei palazzi del potere si avvalgono di manovalanza a basso costo, limitandosi spesso alla realizzazione dei disegni ed affidando a terzi (anche ai “pittori stranieri”) la realizzazione delle opere.
“A Roma, chi visita i grandi cicli di affreschi del Cinquecento spesso rimane stupito dalla varietà delle mani che vi si distinguono. Il maestro incaricato dei lavori partecipava poco alla loro esecuzione, quando non si limitava a fornirne i progetti, che affidava agli aiuti. Se alcuni di loro realizzavano fedelmente, altri non vi si adeguavano del tutto, come se non potessero farlo a causa della loro formazione; in questo caso si tratta spesso di stranieri che si sforzano di esprimersi in italiano nella loro pittura, di passare a un’altra “lingua”, ma vengono traditi dall’accento.
Per individuarne la provenienza occorre procedere come fanno ancora oggi gli italiani quando sentono parlare i loro connazionali. Avvezzi alle molteplici inflessioni di cui si colora la loro lingua nelle differenti regioni del paese, per individuarne il luogo d’origine colgono i termini dialettali, vagliano la pronuncia e il ritmo della frase e ne esaminano l’espressione. Fanno lo stesso con gli stranieri, più facilmente identificabili a causa degli errori di lessico e di sintassi in cui incorrono. Così si comportano anche gli storici dell’arte con i pittori del Rinascimento”.


Come si vede, Valente aveva applicato a Decumbertino, sulla scorta delle comparazioni iconografiche, questo meccanismo delle committenze e degli “aiuti”, lo stesso a cui è giunta, dopo uno studio trentennale, la  studiosa francese.
Rimugino questi pensieri mentre continuo a percorrere le sale, indugiando davanti alle decorazioni tornate splendide dopo il restauro eseguito dalla Soprintendenza alle Belle Arti. Tra gli intramontabili miti, le allegorie, i paesaggi, gli intrecci di pergolati, le volute di acanto, i telamoni e le sfingi, i blasoni nobiliari, le  battaglie e  i busti di imperatori, è facile esaltarsi, trovarsi immerso nell’atmosfera dell’epoca, entrare come in una meravigliosa capsula del tempo.


Rita Frattolillo © tutti i diritti riservati 2016











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