mercoledì 3 marzo 2010

Mont Saint-Michel

Un filo rosso lega San Michele sul Gargano al Mont Saint-Michel, non solo perché entrambi sono dedicati all’arcangelo sterminatore dei demoni, il cui culto si estendeva già nell’antichità dall’Oriente alla Gallia, ma perché nel lontano 708 il vescovo Aubert, dopo i ripetuti sogni in cui Michele gli ordinava di consacrare l’isolotto roccioso al suo culto, inviò dei messaggeri sul monte Gargano, e questi ritornarono con le reliquie del mantello vermiglio indossato lì dall’arcangelo durante una delle sue apparizioni, e un frammento dell’altare su cui aveva poggiato il piede. Nasce così l’edificazione del santuario e dell’abbazia sul Monte, che all’origine si chiamava monte Tomba (a simboleggiare contemporaneamente il sepolcro e l’elevazione) e intorno ad essa sono fiorite numerose leggende sui miracoli che hanno costellato la lunga e laboriosa costruzione. Alla storia della vita dei monaci benedettini su quel Monte si intreccia indissolubilmente la Storia della Francia, e anche quella dell’Inghilterra, dopo che il normanno Guglielmo il Conquistatore s’impadronì dell’isola, e dopo la disfatta di Azincourt (1415), quando a sua volta la Normandia cadde nelle mani degli inglesi. Il picco granitico è appartenuto al ducato di Normandia fino al 1214, quando la vittoria di Bouvines trasformò la Normandia in una provincia del regno di Francia. Meta di pellegrinaggi, ma anche teatro di guerre sanguinose, come la guerra dei Cento anni, Mont Saint-Michel deve ad un suo valoroso soldato, il connestabile Bertrand Duguesclin, se la Francia sembrò rialzarsi dopo le dure sconfitte di Poitiers e Crécy, e il re Carlo V, per riconoscenza, volle che il suo capitano venisse sepolto nella necropoli dei re, l’abbazia Saint-Denis, alle porte di Parigi.

Quello che vedo e provo mentre mi avvicino al Mont Saint-Michel è qualcosa che supera l’immaginazione più accesa.
All’inizio sembra un miraggio, perché si staglia, con la sua caratteristica sagoma piramidale – e la guglia (alta 170 m.) con la statua dorata di S. Michele (alta 4,50 m.) visibilissima anche da lontano - in una distesa d’acqua ferma dal colore indefinibile, una tonalità pastello grigio-sabbia (chiamata “tangue”) con venature verdastre.

In questa baia sfociano tre fiumi, di cui l’ultimo, il Couesnon, divide la Bretagna dalla Normandia, ma non sai se sono i fiumi a entrare nel mare o viceversa. Il Couesnon è ultimamente oggetto di un’opera di sbarramento che consentirà di trattenere parte delle acque portate dall’alta marea e di rilasciarle progressivamente in modo da rimuovere i sedimenti che circondano l’isolotto, perché il problema, qui, è duplice: preservare l’insularità del monte, ma anche tenere conto dell’ecosistema circostante. Infatti se ogni marea lascia depositi di sabbia, i fiumi che sfociano nella baia, domati dall’uomo, non hanno più la forza di portare via i sedimenti. Se occorre sottrarre al mare le terre necessarie all’allevamento delle pecore (che qui si nutrono di una vegetazione salmastra chiamata “herbus”), d’altronde la baia consente l’allevamento di mitili e ostriche; le paludi, infine, fungono da area di svernamento per gli uccelli migratori, e sono il rifugio di diverse specie di invertebrati, pesci e mammiferi marini.

Un’unica stradina – affollatissima e traboccante di attività commerciali in doppia lingua, bretone e francese - in erta salita porta dal borgo dell’isolotto fortificato ad anello (all’ingresso vi sono ben tre porte successive di accesso) fin su, all’altra cittadella, l’abbazia, a cui si giunge dopo aver salito la scalinata. L’architettura del luogo funge da scenografia maestosa intorno all’abbazia, dove regnano incontrastati i licheni. Militaresca e insieme grandiosa, piena di edifici conventuali, di cripte e cappelle sotterranee, sale di ogni tipo, è un complesso architettonico gigantesco che toglie il fiato, un vero labirinto. La chiesa, poi, è ibrida, perché mentre la navata è romanica, il coro è gotico, con uno straordinario effetto di verticalità; altra particolarità è la scala che sale fino alla copertura del coro costruita in una spalla dell’abside. Il refettorio, enorme, mi rimanda direttamente all’atmosfera evocata da Umberto Eco ne “Il nome della rosa”. Una parte dell’abbazia, l’ala gotica, che faceva da cornice alla vita dei religiosi, si chiama “La Merveille”, ed è una vera meraviglia, come dice il nome. Sulla sua sommità, un chiostro con piccolo giardino circondato da un portico elegantissimo, con doppi archi acuti e coppie di colonnine allineate su file sfalsate. Sospeso tra cielo e mare, questo luogo una volta riservato ai monaci per passeggiare e meditare mi ricompensa generosamente dell’aria da sauna perenne che avvolge come un sudario, della massa di sollecitazioni e informazioni non solo visive, quanto storiche, religiose, architettoniche, che cerco avidamente di assorbire, ma che mi lascia estenuata. Appena posso, dalle feritoie delle mura fortificate, spingo lo sguardo fuori, nella baia, dove volteggiano, lanciando le loro grida acute, tanti gabbiani, e dove continua a sorprendermi quel colore incredibile dell’acqua.

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