sabato 21 settembre 2013

TRIESTE tra monumenti e storia


di Rita Frattolillo


Era già da un po’ che volevo tornare a Trieste. L’unica volta che c’ero stata, una ventina di anni addietro, e solo per poche ore, vi ero scesa dalla Carnia dove mi trovavo per gli esami di Stato. Quell’atmosfera di naturale, elegante accoglienza, l’aria di città mitteleuropea avvezza alla diversità etnica e culturale  mi avevano conquistata immediatamente. Ambiente  che indubbiamente ha favorito fin dall’Ottocento l’arrivo di importanti scrittori e artisti stranieri che nella città vissero a lungo. Tra gli altri, Stendhal fu console qui nel 1831, e  Paul Morand, Rainer Maria Rilke, Vladimir Bartol amarono questi luoghi, contribuendo ad allargare gli orizzonti culturali e sociali dei triestini.
Causa ed effetto,  certamente, avevo pensato, dell’attrazione esercitata da una posizione geografica doppiamente strategica sia come terra di “frontiera” che come sbocco sul mare. Crocevia di culture e religioni diverse, Trieste è stata infatti da sempre un punto d’incontro di  popoli, e sul suo territorio fin dall’antichità sono convissute differenti etnie. La sua storia travagliata e intricata è legata proprio all’insieme di tutte queste componenti, che di per sé sarebbero positive:  non hanno bisogno di spiegazioni  i problemi insiti in ogni terra di confine, e su quelle alture  ogni passo è impregnato del sangue di coloro che l’anno difesa, con il proprio corpo e con le armi, da attacchi, sconfinamenti e rappresaglie; per quanto poi riguarda la sua invidiabile posizione sul mare, è risaputo che nel corso dei secoli l’impero austro-ungarico prima e la Germania poi, per le loro ambizioni espansionistiche, hanno cercato di ottenere il controllo sull’Adriatico conquistandone, appunto, i litorale; la presenza di etnie diverse, infine, ha comportato, da parte dei governi che  si sono succeduti, la messa in atto di politiche discriminatorie ora prevalentemente antiitaliane, ora antislave - in ogni caso antidemocratiche - con  conseguenze disastrose facilmente immaginabili. Il fascismo, ad esempio, esasperò l’italianizzazione forzata degli slavi raggiungendo l’apice con la partecipazione all’invasione e allo smembramento dello Stato jugoslavo: i confini italiani furono allora portati oltre Lubiana.

I MONUMENTI E L’IRREDENTISMO
 Oggi, girando per strade e piazze, si può ammirare il monumento a Sissi, amata dal popolo benché moglie dell’ “Impiccatore” Francesco Giuseppe, e quello allo sfortunato Massimiliano d’Austria, e ti sorprendi di incontrare, a passeggio come cittadini qualunque, le statue bronzee di Umberto Saba,
James Joyce e Italo Svevo, personalità che hanno permeato di sé la cultura del Novecento. A Joyce, che aveva eletto Trieste a sua città, tanto lo aveva stregato, e a Svevo, che qui era nato e vissuto, sono stati anche dedicati due musei, che sono frequentati centri di documentazione e studio. Tuttavia,  attraverso la toponomastica e i monumenti che la raccontano, solo in parte è possibile leggere quanto è costato a Trieste poter issare il tricolore italiano. Tricolore che la romana, antica Tergestum ha voluto con tutte le sue forze, e che ha ottenuto, a prezzo di enormi sacrifici di sangue. E dicevo della toponomastica. Quella relativa ai letterati si ferma per lo più  ai toscani (Dante, Machiavelli, Vasari, ecc.), come se non esistesse nulla, nella Penisola, più giù della Toscana, constatazione che – devo ammettere - non mi ha fatto piacere; e  proprio al “toscanaccio” Giosuè Carducci è intitolato  uno dei viali più lunghi della città; ma pour cause, in quanto l’autore delle Odi Barbare aveva alzato la sua voce contro Francesco Giuseppe chiamandolo senza mezzi termini “l’imperatore degli impiccati” per aver rifiutato la grazia a Guglielmo Oberdan, l’irredentista triestino che aveva organizzato un attentato contro l’imperatore, e che per questo, arrestato a Ronchi - città divenuta  simbolo dell’irredentismo - fu giustiziato il 20.12.1882. Ma Carducci non si era limitato a questo; infatti aveva fondato nel 1889 con altri intellettuali la Società Dante Alighieri per tenere alta la bandiera degli irredentisti. In effetti qui gli eroi immortali sono essenzialmente tre, Cesare Battisti (giustiziato il 12.07.1916), Guglielmo Oberdan e Nazario Sauro (giustiziato il10.08.1916), tre campioni dell’irredentismo che per la Patria hanno sacrificato la vita. Nazario Sauro, di Capodistria, era tenente di vascello di complemento, e da pilota compì una sessantina di missioni su unità siluranti; oltre che nelle operazioni belliche, la sua figura emerge anche perché nella sua breve vita si distinse per la generosità d’animo, portando il suo aiuto in tutta la Penisola. Infatti  si impegnò nei soccorsi durante il terremoto della Marsica del 1915, come  testimonia la lapide voluta dal Comune di Avezzano; finanziò  la bonifica del litorale barese, e per questo gli è stato intitolato un tratto del lungomare di Bari. Per le sue imprese una galleria del monte Pasubio porta il suo nome, come pure il sottomarino S518. Superfluo aggiungere che un suo bel monumento si può ammirare sulle rive di Trieste. Davanti a quel mare, di cui un secolo e mezzo fa circa, il 18.06.1861, la romantica Carlotta, ignara dell’atroce destino che l’attendeva, scriveva estasiata al suo Max: “ si ode il mormorio, e si vedono passare le barche dei pescatori che solcano le onde azzurre…”. 

Come è nato l’irredentismo? Per spiegarlo, occorre tornare al clima rovente che si respirava dopo l’Unità “mutilata”della Nazione. All’indomani della vittoria di Bezzecca – in cui ottenne la medaglia al VM per le  ferite riportate il valoroso isernino Ferdinando Formichelli,  figlio di Enrichetta, paragonata per il suo coraggio ad Adelaide Cairoli - che apriva a Garibaldi la strada per Trento, l’armistizio intervenuto tra Austria e Prussia portò al ritiro  dei garibaldini dal Trentino (9.08. 1866) e alla  cessione (23.08.1866) del Veneto e del Friuli all’Italia. Seguì un lungo periodo di pace, fino al 1914. Purtroppo Trento e Trieste, il Goriziano e Aquileia, pur rivendicate dal Regno d’Italia, erano ancora sotto il dominio austriaco. Si sviluppa  così ulteriormente il movimento irredentista, che era nato negli ultimi decenni del XIX secolo. Il termine “terre irredente” fu usato per la prima volta nel 1877  dall’esponente radicale Matteo Renato Imbriani (Napoli, 1843- S.Martino Valle Caudina 1901) quando, di fronte alla tomba del padre, il letterato apostolo della libertà Paolo Emilio, giurò fedeltà e impegno per la liberazione delle terre dal dominio dell’Austria. Imbriani fondò quindi l’Associazione dell’Italia irredenta ottenendo l’appoggio di  Garibaldi, del romagnolo Aurelio Saffi, di  Carducci e di Felice Cavallotti, politico e scrittore che aveva combattuto al fianco dell’eroe dei due mondi. Nel 1913 si registrò un fatto che ridiede fiato al movimento: la condanna a cinque anni di reclusione dello studente triestino Mario Sterle per aver difeso la memoria di G. Oberdan e i decreti del governatore di Trieste, principe Hohenlohe suscitò reazioni in tutto il Paese, rendendo più combattivo l’intero movimento nazionalistico. Era la vigilia del conflitto mondiale e in questo scenario le posizioni irredentiste giocarono un ruolo importante nello scontro tra interventisti e neutralisti.

TRIESTE E IL NAZISMO
Proprio la forte e diffusa esigenza d’indipendenza e l’indomita aspirazione alla libertà nazionale e sociale che da sempre costituiscono il modo di essere di queste popolazioni (è lunghissimo l’elenco dei martiri per la libertà, di qualunque fede religiosa o politica, di qualunque estrazione sociale)  hanno purtroppo accentuato la ferocia repressiva da parte dei nazisti.
Malgrado se stessa Trieste detiene un sinistro primato nazionale: è l’unica città con un  campo di “smistamento” provvisto di forno crematorio. Niente a che vedere, dunque, con i campi organizzati nel resto della Penisola, come, ad esempio, i numerosi campi di detenzione messi su dai nazifascisti nel Molise, che sembrano degli alberghi al confronto con la Risiera di San Sabba, divenuto  monumento nazionale nel XX anniversario della Liberazione (25.04.1965).
L’8 .09. 1943, con l’annuncio dell’armistizio, iniziava la guerra civile italiana. Il Paese era spezzato in due, a Sud gli anglo-americani già sbarcati controllavano il territorio, al Nord la presenza di ingenti truppe tedesche favorì il sorgere della repubblica sociale di Salò guidata da Mussolini; contemporaneamente si formavano i movimenti di liberazione nazionale. Dal Piemonte al Friuli, dall’Emilia alla Lombardia, nacque il movimento partigiano. I CLN ebbero il compito di promuovere e dirigere la lotta contro fascisti e tedeschi. Questi ultimi, nell’area friulana, realizzarono con le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume la “Zona d’operazioni Litorale Adriatico” con a capo un commissario (Gauleiter) nelle cui mani erano concentrati tutti i poteri civili, militari, giudiziari e amministrativi. Di fatto, tutte le autorità italiane furono poste sotto il comando tedesco. In questo quadro si inserisce la trasformazione, da parte degli occupanti tedeschi, degli stabilimenti per la raffinazione del riso costruiti nel 1913  nel rione periferico di San Sabba a campo di concentramento e sterminio  provvisto di forno crematorio. Si accede alla Risiera, battezzata dai nazisti Stalag 339, dal civico 5 di via Giovanni Palatucci, che - come indica la targa -  fu “Questore di Fiume – Giusto tra le nazioni. Dachau 10 febbraio 1945”. Mancanza di luce e di spazio, questa era la prima, pesante punizione, inflitta a chi veniva ammassato qui, nel tetro Polizeihaftlager. Nelle minuscole, squallide celle, ho visto fino a tre tavolacci per lato, dove i detenuti riuscivano ad allungarsi a stento. E il forno che come essiccatoio era servito a pelare il riso, fu trasformato per bruciare migliaia di oppositori al regime nazista. Ma prima vollero provarlo (4.04.1944) con i 70 cadaveri fucilati poco prima al poligono di Opicina. Quando i tedeschi scapparono, lo fecero esplodere per non lasciare prove dei crimini, nella notte tra il 28 e il 29.04. 1945. Innumerevoli le targhe “alla memoria” apposte di anno in anno sui muri del campo. La poetessa Ketty Daneo in memoria del fratello che lì venne recluso ha scritto: “Fiamme dai figli morti/ s’alzano come ali /d’angeli superstiti”. Le donne di Trieste ricordano: “Quale monito agli immemori per la nostra libertà qui caddero madri spose sorelle”.
Che fossero  appartenenti alla resistenza italiana, sloveni, croati o ebrei, studenti, sacerdoti o madri di famiglia, non faceva nessuna differenza. E i treni che fino al 1943 avevano scaricato nella vicina stazione ferroviaria i sacchi di riso da raffinare, ora scaricavano intere famiglie di detenuti rastrellati per ragioni razziali in tutto il territorio, da Lubiana a Treviso a Venezia e Padova: gay, zingari, ebrei, dirigenti dissidenti, oppositori politici, semplici sospettati di attività sovversiva. Da lì venivano deportati nei campi di concentramento e sterminio, quando non se ne perdevano le tracce. Scomparivano soprattutto i disgraziati destinatari del “Programma Eutanasia” (in sigla T4), cioè tutte le persone considerate dai medici nazisti minorate fisiche o mentali. Il cardinale Clemens August Von Galen inutilmente condannò con durezza la pratica dell’eutanasia che lo Stato germanico organizzava, eppure ci fu chi, tra i 174 testimoni al processo iniziato il 16.02.1976 alla Corte d’Assise di Trieste, come l’ interprete della Risiera, Augusta Reiss, ebbe il cuore di affermare che “non c’era un forno crematorio, ma una semplice caldaia da riscaldamento (istruttoria del 3.04.1970). Alla fine del processo, che condannò i responsabili degli eccidi, Simon Wiesenthal - che ha speso la vita a dare la caccia ai responsabili della follia nazista - dichiarò: “Sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano lentamente”.

TRIESTE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE
 I palazzi più decorati, che ricordano quelli di Vienna e anche di Lubiana – perché gli Asburgo si affidavano agli stessi architetti – affacciano sul salotto “buono” di Trieste, la bellissima piazza aperta sul mare, piazza Grande, che oggi si chiama piazza Unità d’Italia. E’ stata questa la  cornice dei momenti d’importanza capitale che hanno scandito la storia di Trieste, del suo territorio, e di tutta la nazione, come lo sbarco italiano che avvenne il 3.11.1918, segnando ufficialmente  il termine della prima guerra mondiale. Guerra che per noi si era svolta soprattutto all’interno dei confini friulani, in Trentino e sulla linea che va dal Garda a Pieve di Cadore. 

 Chiamato a combattere gli austriaci sul fronte friulano c’era il soldato Giuseppe Ungaretti, che nei suoi versi denuncia l’assurdità del conflitto, trasmette l’orrore della guerra, la pietà per i  commilitoni morti, e, sopra a tutto, la prepotente voglia di vivere:
Veglia (Cima Quattro, 23.12. 1915)
Un’intera nottata /buttato vicino/ a un compagno/massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio/ con la congestione / delle sue mani / penetrata/ nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore./ Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita.
Dopo che, tra il monte Grappa e il Piave, avevano sfondato e sbaragliato definitivamente l’esercito imperiale austriaco, i nostri soldati entrano a Vittorio Veneto, segnando così la fine di sette secoli di storia austro-ungarica. Il sogno di G. Oberdan si era finalmente realizzato. Alla Conferenza di Pace di Parigi (19.01. 1919- 10.08.1920), l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, l’Istria e Zara. Ma rimase in sospeso la questione della città di Fiume, e purtroppo “i risultati del conflitto prefigurarono con trattati di pace assolutamente improvvidi gli sconvolgimenti successivi, letali per il ruolo politico della vecchia Europa” (Il Friuli Venezia Giulia, vol.II, TCI, 2006, p.262). Con il trattato di Rapallo (12.11.1920) Fiume fu finalmente proclamata città libera.  In totale, sui campi di battaglia erano rimasti quasi 10milioni di soldati morti, 21 milioni di feriti e  mutilati, mentre il totale delle spese belliche ammontava a 600miliardi di dollari (12 volte il reddito degli Usa nel 1916). L’Italia aveva perso 650mila vite e registrò 470mila processi per renitenza alla leva, 70mila furono i processi contro civili per reati militari. Questo il prezzo pagato dall‘Italia per ampliare il suo territorio da 287mila a 310mila chilometri quadrati e per incrementare la popolazione da 36,1 a 38,8 milioni di abitanti.

Quello storico giorno del 3.11.’18, alle quattro del pomeriggio, gruppi di cittadini in vedetta sui tetti inclinati delle case annunciano a una folla immensa accalcata sotto la pioggia in piazza Grande e lungo le rive  l’arrivo del cacciatorpediniere “Audace”, che decreta ufficialmente la fine del conflitto. Dopo l’attracco al molo San Carlo, il generale Carlo Petitti, pizzo e barbetta, con un colpo secco di tallone pronuncia le parole fatidiche:  “In nome di S.M. il re d’Italia prendo possesso della città di Trieste”; un marinaio grida “Trieste all’Italia!”, e dona il nastro del suo berretto a una donna del popolo. E’ Maria Bergamas, che rappresenterà a Roma tutte le madri dei Caduti ignoti all’Altare della Patria.
La toponomastica è molto avara in fatto di nomi femminili, ne ho contati in tutto quattro, fra cui il nome di Cecilia de Rittmeyer. Questa baronessa ha meritato tale privilegio perché, nello spirito del mecenatismo protestante, lasciò una munifica donazione alla città allo scopo di erigere un istituto per ciechi, istituto effettivamente eretto nel 1913, giustamente  intitolato alla mecenate, e tuttora funzionante. Sul molo, nel bacino di San Giusto, vedo le statue di due sartine sedute, che agucchiano in attesa dei loro uomini dal mare.
E’ bella e apprezzabile questa immagine di donne pensose, che aspettano senza trascurare il loro lavoro. Ma le donne, in particolare quelle friulane, hanno dato prova di ben altro, e all’occorrenza si sono sacrificate con grande coraggio, mostrando sensibilità e spirito di iniziativa. Senza temere le conseguenze hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo. Durante i primi anni della Grande Guerra molte di loro, chiamate “portatrici”, hanno fatto la spola per portare da mangiare ai soldati intrappolati nelle  trincee scavate nelle montagne dagli uomini reclutati tra le fasce più povere della popolazione. In Carnia, zona strategica vitale per impedire il transito agli austriaci attraverso il passo Monte Croce Carnico e il Fella, erano stati dislocati ben 31 battaglioni italiani con il compito di impedire eventuali cedimenti della linea difensiva. Ma era difficile, per l’orografia del territorio, provvedere quotidianamente al rifornimento delle truppe che, all’inizio, contavano tra i 10mila e i 12mila uomini. Non si poteva fare affidamento su carri o veicoli motorizzati, e c’era bisogno di uomini che, sacco in spalla, dovevano raggiungerli. Ma la guerra si dilungava e gli uomini si dovevano impegnare al fronte, non potevano fare da portantini. Il comando militare chiese allora aiuto alle popolazioni locali, dove però erano rimasti solo vecchi e bambini. E’ allora che le donne di Paluzza, rendendosi conto della gravità della situazione, per prime, si mettono a disposizione del comando militare: il loro esempio è presto seguito da molte altre nell’intera regione. Dal 1915 al 1917 furono circa 1500 le donne che prestarono aiuto per il Servizio trasporti e tappe dell’esercito. Dotate di un bracciale rosso di riconoscimento su cui era stampato il numero del reparto dal quale dipendevano, con la gerla sulle spalle, portarono pesi che arrivavano fino a quaranta chili, su dislivelli che andavano dai 600 ai 1200 metri di altitudine. Il loro aiuto fu preziosissimo: nel solo 1916 fu necessario far arrivare al fronte 70mila quintali di derrate alimentari e 150mila litri di acqua, 1000 quintali di munizioni. Di età compresa tra i quindici e i sessant’anni, partivano la mattina con la gerla carica, affrontando sentieri dove neanche i muli potevano arrivare, e, giunte a destinazione, consegnavano tutto, ritiravano gli indumenti da lavare, e poi via per tornare a casa, dove li aspettavano nonni e bimbi da accudire, mucche da mungere, campi da falciare. All’alba successiva, stesso copione, fino a quando non erano colpite dai cecchini austriaci. Come Maria Plozner Mentil, uccisa il 15.02.1916 mentre riposava con l’amica Rosalia di Cleulis. Aveva 32 anni. Ebbe un funerale con gli onori militari, e, dapprima sepolta a Paluzza, fu traslata nel ’34 solennemente nel cimitero di Timau, dove nel 1992 le è stato eretto un monumento che ricorda la sua eccezionale impresa. Il Presidente O.L. Scalfaro le ha concesso nel 1997 la medaglia d’oro al VM, un riconoscimento esteso simbolicamente a tutte le eroiche “portatrici” della Carnia.
Dopo due anni e mezzo di conflitto di posizione, in cui gli eserciti si erano massacrati in una serie di battaglie - passate poi alla storia come “le battaglie dell’Isonzo” -  per conquistare un monte o una valle, i soldati erano stremati. La tregua concessa da Cadorna si  rivelò disastrosa, perché nel frattempo gli austriaci, aiutati dai tedeschi, tra i quali il giovane tenente Erwin Rommel, la futura “Volpe del deserto”, iniziarono la tragica offensiva contro le nostre guarnigioni attestate a Caporetto (24 ottobre-9 novembre 1917). Spezzato in due il fronte difensivo italiano, i soldati, allo sbando, furono costretti alla ritirata prima sul Tagliamento e poi sul Piave. Qui riuscirono ad avere ragione dell’espansione austriaca. Il primo passo verso la rivincita sull’Austria risale proprio a  quel novembre, con la nomina del generale Armando Diaz in sostituzione di Luigi Cadorna, che organizza la resistenza, aumenta il vitto e rinnova l’equipaggiamento. Si giunge all’anno decisivo, e l’esercito italiano, guidato da Diaz, conquista Trento e Trieste. La conclusione della guerra fu dunque vista come il compimento dell’epopea risorgimentale, avendo raggiunto finalmente l’obiettivo di una vera unificazione nazionale. Di sicuro, le atrocità della guerra, lo sconforto e la malinconia per la casa e la famiglia lontane ebbero un ruolo insostituibile nell’unire tutti gli italiani, quelli del Nord, del Centro e del Sud, che, malgrado la torre di Babele dei dialetti diversi, e le differenti tradizioni, sul fronte, davanti allo spettro della morte, con la paura nel cuore, riuscirono ad amalgamarsi e a fraternizzare. E se Diaz poteva proclamare : “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”, la “Leggenda del Piave” sgorgata nel 1918 dalla vena poetica dell’autore di “Santa Lucia luntana”, e di “Pampuglie”, E.A. Mario (pseudonimo del musicista napoletano Gioviano Gaeta, 1884-1961), esprimeva così bene il comune sentire  da diventare ben presto inno patriottico molto popolare.  Eccone i versi:

E IL PIAVE MORMORO’
Il Piave mormorava /calmo e placido al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio./ L’esercito marciava/ per raggiunger la frontiera/ e far contro il nemico una barriera…/ Muti passaron quella notte i fanti/ tacere bisognava e andare avanti!/ S’udiva intanto dalle amate sponde,/ sommesso e lieve il tripudiar dell’onde./ Era un presagio dolce e lusinghiero,/ il Piave mormorò:/  “Non passa lo straniero!” / Ma in una notte trista/ si parlò di un fosco evento/ e il Piave udiva l’ira e lo sgomento…/ Ahi, quanta gente ha vista/ venir giù, lasciare il tetto/ poi che il nemico irruppe a Caporetto!/ Profughi ovunque! Dai lontani monti/ venivano a gremir tutti i suoi ponti!/ S’udiva allor dalle violate sponde/ sommesso e triste il mormorio de l’onde:/ come un singhiozzo in quell’autunno nero,/il Piave mormorò:/ “Ritorna lo straniero!” E ritornò il nemico/ per l’orgoglio e per la fame,/volea sfogare tutte le sue brame…/Vedeva il piano aprico/ di lassù voleva ancora/ sfamarsi e tripudiare come allora…/ “No”disse il Piave, “No” dissero i fanti,/ “Mai più il nemico faccia un passo avanti!”/Si vide il Piave rigonfiar le sponde,/ e come i fanti combattevan l’onde./ Rosso del sangue del nemico altero,/il Piave comandò:/”Indietro va straniero!” Indietreggiò il nemico/ fino a Trieste, fino a Trento/ e la Vittoria sciolse le ali al vento!/ Fu sacro il patto antico,/tra le schiere furon visti/ risorgere Oberdan, Sauro, Battisti…/Infranse, alfin, l’italico valore /le forche e l’armi dell’Impiccatore!/Sicure l’Alpi, libere le sponde…/ E tacque il Piave: si placaron l’onde…/ Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,/ la Pace non trovò/ né oppressi, né stranieri.

TRIESTE E LA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
 E’ ancora il mare lo scenario della  “seconda redenzione” di Trieste, celebrata, il 4.11.1954, con l’ “Amerigo Vespucci” accanto ad altre unità della Marina militare italiana; lungo la Riva i mezzi blindati dell’esercito applauditi dalla folla, come documentano le foto d’epoca, sono in parata al cospetto del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Dopo le tre occupazioni straniere susseguitesi nell’arco di 11 anni, è stato nuovamente issato il tricolore, che sventola su uno dei pili più alti di piazza Unità. Tra queste due date, 1918 e 1954, c’è la rivendicazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio, l’ideologia nazionalista fascista di confine, la snazionalizzazione degli slavi residenti nella Venezia Giulia (che aveva ricevuto questo nome dall’eminente glottologo goriziano G. I. Ascoli nel 1863), con la soppressione delle scuole, degli organi di stampa slavi, l’italianizzazione dei cognomi, il potenziamento delle strutture economiche italiane a svantaggio di quelle orientali. Una sciagurata politica nazionalistica che avrà come inevitabile conseguenza, tra le minoranze slave, la crescita di un odio profondo nei confronti del regime e rafforzerà la tendenza a creare divisioni etniche sul piano sociale. Tensioni e odi che esploderanno con il crollo del regime fascista e la fine della seconda guerra mondiale.  Sta di fatto che dopo quegli orrori e quegli sfregi indescrivibili,  un’altra pagina di crimini orrendi, quello delle foibe, viene scritta, questa volta dalle truppe titine contro migliaia di soldati e civili colpevoli solo di essere cittadini italiani. Il luogo simbolo di queste stragi, è la foiba di Basovizza, un campo aperto e desolato dove aleggia ancora la morte e il vento sembra echeggiare le grida degli innocenti infoibati con indicibile crudeltà in quei profondissimi anfratti naturali scavati nel terreno carsico che fino ad allora erano stati utilizzati dagli abitanti solo come discarica naturale.
Intanto, si profilavano anche altre questioni, come il desiderio di autonomia del Friuli: il 19 gennaio 1947 il docente di Storia delle tradizioni popolari Gianfranco D’Aronco fondava il Movimento Popolare friulano, sostenuto, tra gli altri, da Pier Paolo Pasolini, allo scopo di sostenere la causa autonomistica del Friuli contro  la soggezione alla regione del Veneto. Le manifestazioni del Movimento ebbero grande eco giungendo fino a Roma, dove finalmente i membri della Costituente accettarono, dopo accesi dibattiti, l’idea di una nuova regione a statuto speciale che comunque sarebbe arrivata ben quindici anni più tardi.

Sono scolpite nel marmo  le  parole che sintetizzano gli eventi sanguinosi e l’indomita fierezza della gente triestina:
Città medaglia d’oro al VM per essere stata “fieramente partecipe coi figli migliori alla lotta per l’indipendenza e per l’unità della Patria;(…) questa volontà suggellava col sangue e con l’eroismo dei volontari della guerra 1915-18. In condizioni particolarmente difficili, sotto l’artiglio nazista, dimostrava nella lotta partigiana quale fosse il suo anelito alla giustizia e alla libertà che conquistava  cacciando a viva forza l’oppressore. Sottoposta a durissima occupazione straniera, subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria. Contro i trattati che la volevano staccata dalla Madrepatria, nelle drammatiche vicende di un lungo periodo di incertezze e di coercizioni, con tenacia, con passione, e con nuovi sacrifici di sangue ribadiva dinanzi al mondo il suo incrollabile diritto d’essere italiana. Esempio inestinguibile di fede patriottica, di costanza contro ogni avversità e di eroismo”. 1915-18, 1943-47, 1948-54.

LA TRIESTE MODERNA
Capoluogo giuliano dal 1962, e città  più densamente abitata del Triveneto, Trieste - che oggi vanta anche un settore avanzato di ricerca scientifica  e uno di Fisica Teorica -  è classificata da “Il sole 24 Ore” tra le prime per la qualità della vita, ma è anche in testa alle classifiche per anzianità della popolazione. Popolazione che oggi, oltre agli autoctoni italiani e slavi, conta numerosi gruppi etnici minoritari storici (croati, sebi, greci, tedeschi) e altri di recente insediamento (arabi, albanesi, romeni, cinesi, africani, sudamericani). Durante il  ventennio fascista gli slavi abitanti nel comune furono costretti ad abbandonare la città, mentre la florida comunità ebraica che esisteva prima della seconda guerra mondiale si ridusse a causa delle persecuzioni naziste, cambiando la fisionomia etnodemografica della cittadinanza. Altro mutamento dopo il 1954, quando, con la fine del TLT (Territorio libero di Trieste, considerata città stato indipendente sotto la protezione anglo-americana, chiamata zona A, distinta dalla zona B, che invece era la costa istriana, sotto l’esercito jugoslavo) che era stato decretato a Parigi nel 1947, oltre 20mila abitanti, spinti da motivazioni economiche e politiche, emigrarono in Australia, Canada, Sudamerica. La chiusura di aziende importanti come la Stock, le birrerie Dreher, e poi dei cantieri navali San Marco contribuirono al trasferimento di ampi strati di popolazione altrove alla ricerca di lavoro. Ma il fenomeno migratorio, all’inizio a carattere pendolare, che aveva interessato in particolare la Carnia, è di vecchia data, e risalirebbe addirittura alla prima metà del Quattrocento, quando in autunno e in inverno  i carnici abbandonavano i loro paesi per trasformarsi in ambulanti, commerciando spezie, erbe medicinali, tessuti, ai veneziani, ai triestini e agli austriaci. Erano chiamati cramars, termine di origine  tedesca che vuol dire droghiere, merciaio. In seguito le decine di migliaia di emigranti giuliani e veneti che dalla seconda metà dell’Ottocento lasciavano i propri paesi d’origine per cercare lavoro furono chiamati “Terroni del Nord”. Esemplari le storie raccontate da Carlo Sgorlon sulle avventure dei muratori friulani chiamati in Russia per la costruzione della colossale Transiberiana sul finire dell’Ottocento. Ma non solo. Gli operai carnici e friulani si distinsero nella costruzione del Canale di Panama, della Moschea Blu di Istanbul, del Municipio di Vienna. Forse proprio immedesimandosi nella nostalgia di casa che quegli  operai emigrati avranno sofferto, Umberto Saba ha scritto:
“Avevo una città bella
tra i monti rocciosi e

il mare luminoso”.
©Rita Frattolillo

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