di Rita Frattolillo
La recente celebrazione risorgimentale, se ha avuto il merito di mettere qualche volta l’accento sul contributo dato dalle donne alla causa dell’Unità, cominciando a rimuovere il “Risorgimento invisibile”, ha purtroppo perso l’occasione di togliere dall’angolo le donne che, armi in pugno, resistettero – a torto o a ragione – all’invasione piemontese del territorio meridionale.
Fortunatamente, negli ultimi anni, la
letteratura sulla guerra “cafona”, che vide impegnati in una lotta senza
quartiere per anni, all’alba dell’Unità, i briganti contro i “galantuomini” e
contro i “Piemontesi”, si è arricchita di titoli importanti incentrati sulla
figura delle donne che, per forza, per amore o per convinzione, sparirono nei
boschi, e, vestite da uomo, imbracciarono uno schioppo entrando direttamente in
azione contro gli invasori, difendendo il Sud.
Quando,
dove e perché è nato il brigantaggio femminile? Quale fu la vita delle
brigantesse alla macchia? Il loro ruolo e la loro funzione nella banda? Quale
il loro rapporto con i maschi, il loro comportamento in combattimento, nei
processi e in prigionia?
In passato le risposte a tali domande sono
state il più delle volte vaghe e venate di pregiudizi, a causa del ritardo
degli storici nel considerare attivamente il ruolo delle donne briganti.
Così, Jacopo
Gelli[1],
che si è occupato in un lavoro organico della presenza femminile nel
brigantaggio, ricalca la visione dominante negli anni Trenta del Novecento, che
era composta da “drude”, cioè donne di piacere al servizio di delinquenti e
assassini.
A poco a poco,
il quadro si è arricchito, grazie alle ricerche sugli atti processuali [2]
e sulle cronache dell’epoca, da cui sono
emersi diversi nomi.
Recentemente
una lettura più oggettiva del
brigantaggio post-unitario, visto da una parte come espressione
dell’esasperazione contadina per il problema delle terre e del legittimismo
borbonico, dall’altra come espressione dell’avversione verso i “galantuomini”
liberali e verso il nascente Stato italiano, ha gettato nuova luce sulla
partecipazione della donna alla lotta brigantesca, sia come fiancheggiatrice
che come capobanda. I volti e le vicende affiorati hanno consentito una svolta
decisiva a ricostruzioni rimaste ancora legate ad elementi leggendari, per fare
spazio ad approcci che, superandoli[3],
hanno evidenziato la massiccia presenza delle donne al processo di ribellione
del Mezzogiorno all’alba dell’Unità. La loro determinazione e il loro coraggio
in azione, il loro comportamento in diversi casi autonomo e psicologicamente
indipendente, hanno ribaltando il ruolo stereotipato di soggezione e
rassegnazione tradizionalmente attribuito alle donne del Sud;
non solo fiancheggiatrici, ma autrici di atti
violenti per un’affermazione identitaria e/o
per ribellarsi ai soprusi.
A
chi ancora oggi spiega sbrigativamente
la presenza femminile tra i briganti come conseguenza di stupri, che avrebbero
costretto le vittime ad allontanarsi dal paese e darsi alla macchia, per
sottrarsi al giudizio della propria comunità, si può obiettare che questo è
vero, ma solo per alcune brigantesse, mentre la tipologia fin qui individuata
rimanda a casi ben più diversificati;
senza
contare che le foto sbiadite di Google, che ci restituiscono volti segnati di
donne dallo sguardo forte, riprese in
duri atteggiamenti di lotta, mal si conciliano con l’immagine patetica di
povere ragazze violate….
E forse non è fuori luogo ricordare,
a conferma della molteplicità dei casi, che la prima figura di brigantessa di
età moderna individuata, attiva nel decennio di occupazione francese
(1806-1816), Francesca La Gamba[4],
era una tranquilla filandiera calabrese di Palmi (RC); tranquilla finché non le uccisero i figli.
Fu questa la causa prima che trasformò la
pacifica popolana in Erinni
vendicatrice.
Francesca La Gamba, avvenente ed esuberante
nel carattere, era madre di tre figli.
Suscitò le mire di un ufficiale
francese, che, forte della sua divisa e del suo potere, non esitò a farle delle
avances, e tentò di sedurla. Ma la donna, fiera e fedele al legame
maritale, respinse l’uomo, che, ferito nell’orgoglio, progettò un’atroce
vendetta, facendo affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta
contro l’esercito francese. Il mattino seguente furono arrestati come autori
della bravata i figli di Francesca, e, dopo
un processo sommario, fucilati.
Nella reazione drammatica che travolgerà Francesca, armandole la mano e
trasformandola in una “donna di piombo”, si possono cogliere aspetti di natura diversa che si
intrecciano con la motivazione principale, il gravissimo torto subito.
Difatti allo stato di vessazione, alla sete di
vendetta, si mescola un coagulo di
sentimenti riconducibili alla
consapevolezza della prevaricazione e dei soprusi commessi dagli occupanti,
alla constatazione del loro disprezzo per gli affetti altrui feriti, e, infine,
all’ansia di rivendicazione sociale contro i “conquistatori”.
Pazza di dolore per la sorte tragica
toccata ai figli, la donna scappò dal paese, si unì ad una banda di briganti
della zona, indossò abiti maschili e dimostrò grande ardimento nelle azioni di
guerriglia. A questo punto la sua biografia prende i colori del mito, perché si
vuole che, tempo dopo, Francesca facesse prigioniero proprio quell’ufficiale.
La sua ferocia - racconta la leggenda - non conobbe limiti: lei gli strappò con una
coltellata il cuore dal petto, e lo divorò ancora palpitante.
La vicenda riguardante Francesca appare
isolata, poiché se è vero che già nel periodo francese s’era registrata la presenza [5]di
bande[6]
in tutto il Mezzogiorno, il brigantaggio organizzato esplose una quarantina
circa di anni dopo, intorno al 1860, e
quello femminile ebbe un ruolo autonomo proprio nel periodo post-unitario.
Anche se i briganti scorrazzavano ovunque,
dalla Sardegna al Lombardo-Veneto, l’epicentro del fenomeno, che conobbe picchi
di recrudescenza dopo l’insurrezione di Isernia (30.09.1860) e dopo la crisi di
Aspromonte (29.09.1862), fu al Sud, perché nell’incontro tra Nord e Sud il trauma
del regno duosiciliano fu il più
lacerante e profondo.
Il popolo meridionale difatti non si
spiegava perché un regno retto da una delle più antiche dinastie europee,
all’avanguardia in certi settori [7],
un regno libero e indipendente, senza lo straniero in casa - come era accaduto
invece al Lombardo-Veneto - si trovasse “conquistato”, annesso, e, come se non
bastasse, venisse accantonato, emarginato (quando non sfruttato) dalla politica
del nuovo governo.
Il Molise, alla periferia dell’ex regno
borbonico, e strategicamente importante, trovandosi allo snodo tra Sud e
Centro, era attraversato da fermenti antitetici, da dinamiche politico-sociali
contrastanti: da una parte rigurgiti di realismo borbonico - i nostalgici del
vecchio[8]
-, dall’altra spinte liberali non sempre sincere, dettate dall’opportunismo.
Quando
l’inesperto Francesco II, che a
ventitré anni (nel1859) era successo al
padre Ferdinando II [9],
dopo la tragica capitolazione[10]
dell’ultima roccaforte borbonica, Gaeta (febbraio’61), riparò a Roma, nei territori dell’ex Regno delle Due
Sicilie sorsero ovunque comitati segreti
filoborbonici allo scopo di sollevare le popolazioni contro il nuovo governo.
Ed era gioco facile, perché le
classi rurali, i cafoni,
quegli straccioni con sandali di pelle di
capra, con feltro a tronco di cono, discendenti legittimi di quei terribili e
pomposi guerrieri che facevano sudare sangue ai Romani intesi a domarli [11]
si aspettavano giustizia sociale dal
nuovo governo, ma le speranze ingenerate si erano presto rivelate infondate.
Purtroppo nella tanto attesa ripartizione delle terre, malgrado l’eversione
della feudalità e l’esproprio dei beni ecclesiastici, grazie all’alleanza della borghesia del Nord
con quella meridionale e ai sofismi delle leggi del nuovo Parlamento, si agì
con i criteri degli interessi di classe, a danno dei più poveri, che
continuarono a lavorare la terra per conto dei galantuomini[12].
Evidentemente era più facile
cambiare la geografia anziché l’assetto socio-economico del Paese.
C’è una frase telegrafica, che il capitano garibaldino Alberto Mario mette in bocca
al vetturino a cui il maggiore
bergamasco Francesco Nullo aveva
domandato spiegazione dell’appellativo “cafone”: « Cafoni, Eccellenza, si
chiamano i contadini, e galantuomini i proprietari»[13].
Frase
che, nella sua asciuttezza, ha un significato profondo, perché nell’antitesi
tra i due comprimari - cafoni e galantuomini - contiene l’essenza del fenomeno del brigantaggio, che
è visto da Giustino Fortunato come l’ultimo atto del dramma, terribile ne’ suoi
episodi e ne’ suoi aspetti, della questione demaniale[14].
La cosiddetta guerra cafona, infatti, non si sarebbe manifestata in maniera tanto
massiccia e virulenta senza l’aggravarsi della depressione economica, e -
soprattutto - senza l’acuirsi della frattura
insanabile tra cafoni e galantuomini meridionali all’indomani
dell’Unità.
Dopo lo scioglimento dell’esercito
borbonico, gli ex soldati si trovarono allo sbando, e i giovani persero una
possibilità di sbocco occupazionale, con il risultato che si ingrossarono le
schiere di soldati senza esercito e di mancati soldati, aggravando la crisi
socio-economica.
Come se non bastasse, il richiamo
alle armi del nuovo esercito venne
spesso occultato da funzionari ex borbonici allo scopo di generare tensioni e disordini, sicché una
massa di giovani si trovò bollata di diserzione, alcune volte senza neanche
saperlo. Altri, poi, furono consapevolmente renitenti alla leva, e, a conti
fatti, alla morte in battaglia preferirono la “fatìa” dei campi, loro fonte di
sostentamento.
Lo sconquasso sociale e politico arrivò al massimo, il destino apparve
segnato: rassegnarsi o ribellarsi.
Il movimento spontaneo, che
storicamente si rinnovava ad ogni cambiamento politico, frutto del secolare
abbrutimento di miseria e ignoranza delle nostre plebi rurali - ha scritto
Giustino Fortunato - questo malessere sociale, fu deliberatamente sfruttato a
scopi politici, inasprito e strumentalizzato dalla delinquenza comune[15].
Infatti ai contadini senza terra e ai
soldati senza esercito, ai disertori, si aggiunsero gli evasi dai bagni penali
borbonici, e in seguito i cafoni impoveriti[16]
dall’usurpazione dei galantuomini e scappati dai paesi per sfuggire alla
persecuzione dell’esercito.
Soldati borbonici, sudditi, cafoni e
veri briganti finirono insieme, e questo li rese, per l’invasore e i libri di
storia, indistintamente, briganti [17].
Tutti quanti, una volta alla
macchia, si organizzarono in guerriglia,
seguendo la strategia delle azioni effettuate da piccoli gruppi che, concluso
l’attacco, si disperdevano alla spicciolata per riunirsi in seguito in un punto
prestabilito.
Con l’Italia appena unita, le “compagnie”,
quindi, aumentano, e dal Molise al beneventano, dalla Capitanata alla Penisola
salentina, fino all’estrema Calabria, sventolando la bianca bandiera
borbonica, infestano i paesi, bloccano
le vie, impauriscono e ricattano i possidenti, rendono impossibile la vita e il
lavoro quotidiano nei campi.
Conoscendo bene i posti, sanno dove
nascondersi, e si danno ai saccheggi, alle ruberie, ai sequestri, agli incendi,
sicuri di farla franca, anche perché contano sulla complicità di manutengoli,
compaesani e parenti. Ci contano non solo perché ogni tanto si comportano da
Robin Hood, ma anche perché fanno leva sulla sete di rivendicazione sociale del
popolo nei confronti dei proprietari liberali e sulla voglia di dare scacco ai
“Piemontesi”, considerati bestemmiatori e miscredenti.
Scesi con un esercito che obbediva a un re
straniero con baffoni e pizzo come gli odiati liberali, che applicava leggi
straniere, che parlava una lingua straniera, disgraziatamente la stessa del
decennio francese, e che dunque era considerato alla stregua di un esercito di
occupazione, come lo era stato quello francese,
di cui si conservava amarissima memoria.
I Fra Diavolo, i Pronio, i Mammone del
periodo sanfedista, oggi si chiamano Centrillo (Domenico Coja, di Castelnuovo al Volturno, provincia di Isernia, ex
soldato borbonico), “caporal” Nunzio Di
Paolo di Macchiagodena, i Primiani
che imperversano nel Basso Molise, “colonnello” Michele Caruso, il capo
lucano Carmine Crocco Donatello, Ninco
Nanco, Domenicangelo Cecchino e Samuele Cimino di Roccamandolfi.
La violenza esplode, si registrano
gravi episodi che mettono in difficoltà l’esercito piemontese, che,
avventurandosi in luoghi impervi che non conosce, cade nelle imboscate, vede
impotente i suoi uomini falciati da un nemico invisibile che morde e fugge.
Il fenomeno della rivolta
meridionale - definita resistenza
patriottica, insorgenza antisavoiarda, guerra civile - bollata
semplicisticamente come “brigantaggio”[18],
approda in Parlamento, il quale, anziché rimuovere le cause con una saggia
politica di riforme, sceglie la via della repressione, dimostrandosi incapace
di far fronte alle sfide. Viene adottata la Legge Pica (15 agosto1863, in
vigore per due anni), che sospende le libertà costituzionali nei territori
“infestati”, instaura il terrore, la fucilazione sul campo (con annessi danni
“collaterali”, tra cui lo stupro delle donne dei “ribelli”), facendo della
repressione più rigorosa non una misura eccezionale, ma la regola sanzionata
dal diritto[19].
Nella sola Sicilia si contano 5000
morti nel solo 1866 [20]
.
In quegli anni un ruolo sempre maggiore è
esercitato dalla fotografia come mezzo di propaganda per i successi
sabaudi: le foto dei briganti uccisi [21],
scattate dai fotografi al seguito dell’esercito, che li mostrano denudati,
mutilati, spesso decapitati, erano consegnate alla stampa per testimoniare la
linea dura del governo e le sue vittorie.
Tra questi documenti visivi spicca quello
dell’unica brigantessa uccisa in combattimento, Michelina Di Cesare
(1841-1868), di Terra di Lavoro, un’icona del brigantaggio, la più
ritratta nei testi sull’argomento, dapprima giovane e bella in abiti
tradizionali e con la doppietta, poi fotografata nuda e sfregiata in seguito alla cattura e
all’uccisione.
Il suo
cadavere denudato fu esposto con quello del suo
compagno Francesco Guerra, ex
soldato borbonico, nella piazza centrale di Mignano (Caserta) a monito della
popolazione, per intimidirla[22].
Sono passati alla storia i massacri perpetrati
dall’esercito italiano a Pontelandolfo e Casalduni (Benevento), paesi che
all’epoca appartenevano al Molise, e che furono quasi completamente rasi al
suolo il 14 agosto 1861 come risposta alla strage di 45 militari piemontesi
avvenuta qualche giorno prima ad opera di alcuni briganti e contadini del posto
aizzati anche dai preti che inveivano contro il nuovo governo, considerato un
covo di scomunicati.
Il regno sabaudo, che ebbe un modo
di procedere impregnato anche di disprezzo dando una lettura venata di razzismo
di quanto accadeva nel Meridione[23],
impiegò una diecina d’anni di violenta repressione in cui schierò la metà delle
forze disponibili per debellare le 400 bande armate, con 80mila e più uomini
alla macchia, senza contare le migliaia di fiancheggiatori.
E’ in questo contesto
magmatico che matura dunque il dramma della brigantesse, dramma della rottura dell’equilibrio
familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze senza più genitori, di
vedove: è dramma di donne disperate, che, vedendo crollare il mondo intorno a
cui avevano costruito la loro pur misera esistenza, decidono di aggredire la
vita, e si dimostrano nei fatti capaci di coraggio e determinazione.
Donne come maschi, spesso più forti
dei maschi nella sofferenza, nella sopportazione della fatica, delle privazioni
ha affermato Raffaele Nigro[24].
Ma anche nella ferocia: sono donne giovani e
spietate quelle che, per sfuggire alla legge, per sete di vendetta, per
riscattarsi da una vita miserabile, imbracciano un fucile, e, in abiti
maschili, contendono con altri briganti il controllo delle regioni meridionali
all’esercito.
Dai loro brevi giri di vite[25],
su cui sono germogliate ballate popolari e rappresentazioni sceniche, sono
emersi alcuni nomi.
L’unica
ad essere stata condannata a morte mediante fucilazione alla schiena dal
Tribunale Militare, nota come “la brigantessa delle brigantesse” è la calabrese
Marianna Oliverio (1841-?),
“Ciccilla”: aveva ucciso con una trentina di colpi d’ascia la sorella Teresa
che aveva avuto una relazione con suo marito Pietro Monaco, ex sergente
borbonico, e quindi si era data alla macchia con lui.
Vestiti i panni di uomo, operò nella Sila, e
quando Pietro morì in un attentato, assunse il comando della banda,
distinguendosi per la ferocia con cui infieriva a rasoiate sui cadaveri degli
uccisi. La sua pena fu tramutata in ergastolo,
scontò nella prigione di Finestrelle in Piemonte.
La più crudele, Marianna Corfù, era l’amante
del sanguinario ex soldato borbonico Ninco Nanco, luogotenente di Crocco, evaso
da Ponza nel ’60. Aveva la macabra abitudine di
bere nel teschio di un bersagliere da lei stessa ucciso.
La meno giovane era la lucana
Arcangela Cutugno, nota e temuta come guerriera abile a cavallo e a tirare di
schioppo.
La più nota è l’irpina Filomena Pennacchio (n.1841-?; all’anagrafe De Marco, ma chiamata
“pennacchio” per il vezzo del cappellino piumato sulle ventitré). Figlia di
macellaio e sguattera fin da piccola, esordì uccidendo il marito,un cancelliere
di Foggia, che aveva sposato per risollevare le sorti della famiglia, quando,
stanca dei continui maltrattamenti, gli conficcò un lungo spillone in gola.
Rifugiatasi nel bosco di Lucera per evitare il carcere, si aggregò alle bande
locali; divenne l’amante di Caruso, poi del capo lucano Carmine Crocco[26]
, poi di Giuseppe Schiavone.
Intrepida combattente, partecipò all’eccidio
di una decina di soldati a Sferracavallo, sulla consolare Na -CB, con Caruso, Schiavone e un’altra
sessantina di uomini.
Diversi tribunali, tra Potenza, Avellino e
Lucera, testimoniano numerosi capi
d’accusa, dall’estorsione all’omicidio volontario. Fu catturata, pare, in
seguito alle gelosie di Rosa Giuliani,
precedente compagna di Schiavone, che denunciò il rifugio della banda;
Schiavone fu catturato (1864) e fucilato. Rimasta sola e incinta, Filomena si
lasciò allettare dalla promessa di uno
sconto di pena, parlò: Giuseppina Vitale,
Maria Giovanna Tito, donna di
Carmine Crocco, e Agostino Sacchitiello, luogotenente di quest’ultimo, finirono nelle
patrie galere.
La delazione[27]
servì allo scopo perché dopo sette anni
di carcere, nel 1872, Filomena se ne
tornò a casa.
Nei processi politici per atti di
brigantaggio consultati presso
l’Archivio di Stato di Campobasso, ho colto più di una volta, tra le righe, lo
stupore dei militari quando scoprivano che le complici, oltre a nascondere i
ricercati e a curarli, li coccolavano
procurando loro persino il tabacco da fiuto.
Le fiancheggiatrici - figure distinte dalle
donne briganti - erano parenti o ammiratrici dei briganti perché sfidavano la
legge, e allora, vincendo la paura, uscivano di casa di notte per portare cibo,
notizie, affetto, cure ai feriti, sviavano con mille astuzia le ricerche dei
militari.
Molto
numerose, erano veri segmenti collaterali, indispensabili per le bande, e
tuttavia non bastavano, perché una banda bene organizzata non poteva fare a
meno di avere con sé delle donne (anche se spesso scatenavano lotte interne e
gelosie), e non solo per motivi logistici o alimentari.
C’era anche e sopratutto la
cupidigia maschile, la voglia di soddisfare i propri istinti, e quindi
la caccia a donne giovani e piacenti era sempre aperta, per le strade di
campagna, nei casolari, persino in paese.
Caccia che non teneva conto delle
conseguenze, perché poi l’eventuale maternità diveniva un handicap per
la banda, al punto da decretare, spesso, la condanna a morte per la
malcapitata.
Anche
se è difficile operare una scelta, riferirci ad alcuni profili di donne
briganti può aiutare a chiarire le tipologie sinora identificate.
Maria Giantommaso di Rotello (CB), rappresenta il
tipo della donna di brigante “per forza”: venne rapita, ridotta in schiavitù,
fortunatamente per poco, anche se quel “poco” la segnò per sempre. Nel febbraio 1863, a 19 anni,
mentre tornava dai campi dopo una giornata di fatica con altre sei donne, tra
cui la madre e le sorelle, Maria fu rapita durante un terribile assalto dal capobanda di Macchiagodena “caporal” Nunzio di Paolo[28], uomo di Caruso.
Il
suo incubo durò 17 giorni durante i quali, dopo essere stata stuprata da
quattro della banda, vestita da maschio
e coi capelli tagliati, dovette seguirne i movimenti e soddisfarne le voglie. Un attacco della banda
contro la Guardia nazionale nelle campagne di Chieuti la salvò, perché Maria
riuscì, sia pure ferita, a dileguarsi; alcuni contadini l’aiutarono a ritrovare
la strada di casa. Ma le umiliazioni non erano ancora finite, perché, siccome
con il danno arriva spesso anche la beffa, non le venne neanche risparmiata una
dolorosa ispezione corporale eseguita, figuriamoci, con i rudimentali strumenti
dell’epoca, allo scopo di verificare quanto denunciato.
La donna di brigante “per forza” più
popolare del Molise è indubbiamente Filomena
Ciccaglione di Riccia (CB).
Il brigante Michele Caruso
(1837-1863), originario di Torremaggiore (Puglia), di mestiere
cavallaio, ma promossosi “colonnello”
per via dell’incarico ricevuto da funzionari filoborbonici di sollevare le
popolazioni contro il nuovo governo, seminava
il terrore tra Puglia, Molise e Abruzzo. Dongiovanni impenitente, faceva collezione di belle ragazze, e proprio
questo penchant fu causa della sua morte.
Dal giugno 1863 aveva per amante la
giovanissima Maria Luisa Ruscitti di
Cercemaggiore, ma ciò nonostante quello
stesso autunno si invaghì di Filomena
Ciccaglione, che aveva adocchiato durante i suoi assalti alla
masseria della giovane nel corso dei quali aveva ucciso tre uomini, tra cui il
padre della ragazza. Filomena era bella, non passava inosservata, e lui non
riusciva a levarsela dalla testa, per cui organizzò con cura il ratto. Detto
fatto.
Nel folto del bosco Mazzocca dove era stata
nascosta, la ragazza, che dopo lunghe quanto inutili resistenze aveva dovuto
cedergli, cominciò a meditare la vendetta, e nello stesso tempo approfittava
del suo ascendente per intercedere presso il brigante innamorato e far cessare
incendi, rapimenti, ruberie.
Intanto il prefetto Arditi, pressato dai
riccesi, unì per un’azione più incisiva le forze militari, che sgominarono la
banda, ma non il capo, Caruso, rimasto
uccel di bosco. A quel punto, comunque, Filomena vide giunto il momento
propizio per la sua vendetta, indicò il nascondiglio alle guardie, facendo
catturare Michele (nel bosco Carbonara), che dopo il processo, a Benevento, fu
condannato a morte[29].
Ritornata in paese, Filomena si ammalò gravemente di tisi, e tre anni dopo si
spense, a soli 22 anni, nel 1866[30].
Tra le donne sedotte dalla figura
del brigante, al punto da diventare brigantesse “per amore”, c’è Maria Luisa
Ruscitti di Cercemaggiore (nata nel 1844), che incontrò sulla sua strada il
solito Michele Caruso. Ne rimase ammaliata, lo seguì. Si vestì da uomo, apprese
alla svelta l’uso delle armi, si rivelò ottima tiratrice e rapidissima negli
attacchi, in prima linea negli agguati e nei delitti che compiva a sangue
freddo.
Il 18 agosto 1863, in uno scontro con una
colonna di bersaglieri e Guardie nazionali, in cui morirono sette briganti,
Maria Luisa fu catturata e condannata a 25 anni. Quando uscì di galera, nel
1888, aveva 44 anni, era quindi ancora giovane, ma ormai la sua vita era
finita.
Un’altra brigantessa è Marta Cecchino di Roccamandolfi (IS).
La sua sorte è stata indubbiamente tracciata
dall’appartenenza ad una famiglia di briganti: infatti il fratello
Domenicangelo, dopo aver partecipato con Samuele
Cimino alla feroce reazione di Isernia dell’autunno 1860, si era dato alla
macchia sulle montagne del Matese, e aveva formato una feroce “compagnia”.
Nel 1861, a forza di fare da corriere al
fratello sulle montagne, Marta, 25enne, quindi per quei tempi considerata già
zitella, si innamorò di Samuele, e un bel giorno di primavera non tornò a casa, richiamata dalla sete di
libertà e indipendenza. Si gettò nelle braccia di Samuele, che era, pare, un
bell’uomo, e poi, infilati i pantaloni, cappellaccio a punta con nastro rosso,
baffi tinti col carbone, imbracciò lo schioppo; con l’amore, scoprì presto
anche l’ebbrezza di incutere terrore ai
malcapitati.
Lì
alla macchia si mangiava e si beveva a sbafo, altro che casa sua. La miseria
era alle spalle, lei e gli altri
mangiavano meglio degli odiati galantuomini: caciocavalli, prosciutti, uova,
lardo, carne, ogni bendiddio razziato a destra e a manca. Unica
precauzione, evitavano di cucinare,
perché i grossi fuochi, il fumo, gli odori, avrebbero potuto attirare
l’attenzione e rivelare la loro presenza.
Samuele era
generoso, la riempiva di oro, anelli, catene, scekkuaglie
(orecchini), tutto bottino delle ruberie, e lei, Marta, qualcosa la nascondeva
sotto a un sasso; in futuro, dovette pensare, non si sa mai...
Il 13 (altri storici dicono il 14)
agosto 1861, la banda
Cecchino-Cimino al completo compie scorrerie a Cantalupo e poi a Roccamandolfi. Passa per le armi sul
Colle Santo otto persone, tra cui alcuni preti. Incendia la cancelleria
comunale e l’archivio. Dopo, saccheggia altri paesi del Matese. Di
ritorno, si bivacca e si gioca, quando
per motivi poco chiari, forse per affermare la supremazia nel comando, i due
capibanda, Domenicangelo e Samuele, si affrontano e si feriscono entrambi,
sparandosi.
A questo punto le testimonianze divergono,
rendendo difficile stabilire la verità dei fatti.
Secondo la tradizione popolare
raccolta dall’avvocato roccolano Vincenzo
Berlingieri[31],
adolescente all’epoca dei fatti, Samuele restò a terra ucciso.
Secondo altre fonti, nel novembre del 1861
venne ucciso in un’imboscata con il giovane figlio Antonio e qualche suo compagno alla foce del Saccione, mentre
secondo altre ancora morì in uno scontro a fuoco con i soldati il 12.3.1862 .
Domenicangelo, a sua volta ferito durante uno scontro con la guardia
nazionale, si nascose in località Macchitelle, ma un contadino lo denunciò, e
il brigante venne preso e fucilato (il 5.9.1861 oppure, secondo altri, il
4.10.61).
Comunque,
Marta, ormai giunta al quarto mese di gravidanza, non era più agile come una volta,
rappresentava solo un intralcio negli spostamenti veloci, e come un cavallo
azzoppato era considerata dai compagni, compreso il fratello.
Fatto
sta che, mentre riposava, venne fulminata alle spalle da una fucilata, neanche
il tempo di dire amen. Il suo cadavere non venne mai ritrovato, forse perché
bruciato, o forse perché uno zio pietoso aveva pensato bene di seppellirlo
cercando di non farsi vedere.
Rita Frattolillo - Tutti i diritti riservati
Rita Frattolillo - Tutti i diritti riservati
[1] Jacopo Gelli, Banditi,
briganti e brigantesse dell’Ottocento, Firenze, Bemporad, 1931.
[2]
Incredibilmente, tra i
218 briganti schedati nel 1862 nell’alto Molise dal prefetto della Provincia
non compare neanche un nome di donna. E, le rare volte che le donne dei
briganti sono nominate, di solito nei
fascicoli processuali sono accomunate ai loro uomini, perché sono ritenute
“semplici” complici; gli atti raccontano
di donne rapite e costrette a uccidere, anche se il più delle volte mentivano
per salvarsi, e i giudici in effetti davano pene più lievi; d’altra parte non
era “letta” la loro volontà
di prendere in mano il proprio destino, di voler giocare un ruolo
autonomo; non era forse neanche immaginata la possibilità di una spinta a
rompere gli schemi, a essere libere, in barba alle convenzioni del tempo.
[3]
Studiosi e letterati si sono spesso
ispirati alle storie delle brigantesse
romanzandone le vicende in
drammi, novelle, canzoni popolari.
[4] www.brigantaggio.net
[5] Nel Molise, agivano, tra gli altri, i triventini Paolo
Vasile e Fulvio Quici; quest’ultiimo – a quanto si sa – aiutò Raffaele Pepe a
fuggire da Napoli dopo la caduta della Repubblica Partenopea (1799). Biase
Zurlo nel 1810 denunciava l’esistenza,
nel circondario di Bojano, di un nido di briganti, e altri ce n’erano nel Basso
Molise, come i Vardarelli (Neomartino), nativi di Celenza Valfortore e
residenti a Castelnuovo di Daunia (Foggia). Costoro sono tristemente famosi
anche perché uccisero a fucilate Nazario Campofreda (1813) di Portocannone che
dava loro la caccia. Finirono qualche anno dopo (1818) a Ururi per mano del figlio di Nazario, il capitano
Nicola Campofreda, che si distinse con i “suoi” albanesi nei fatti d’arme di
Isernia dell’autunno 1860. Dagli inizi del XIX secolo il fenomeno del brigantaggio non si era mai
completamente sopito, basti ricordare il clamoroso episodio che vide suo
malgrado protagonista lo storico tedesco Teodoro Mommsen, rapito tra Sessano
del Molise e Pescolanciano nel 1846. I
briganti scorrazzavano ovunque, dalla Sardegna al Lombardo-Veneto, ma il nome
più famoso di brigante, grazie a Giovanni Pascoli, che lo definisce“ re della
strada, re della foresta”, è quello del Passator “cortese” (Stefano Pelloni),
il quale infestava lo Stato pontificio, rifugio degli sbandati per eccellenza.
[6] E’ stato sottolineato (Enzo Ciconte, Banditi e briganti. Rivolta
continua dal Cinquecento all’Ottocento, Rubbettino, 2011) che un filo lega
-ma nello stesso tempo separa- “banditi”
e”briganti”, nel senso che, mentre i primi erano spesso nobili o signorotti
locali in lotta col potere regio, oppure giovani che si ribellavano alle
ingiustizie, ed erano colpiti dal “bando” (cioè espulsi dalla comunità), i
secondi erano costituiti dalla masse contadine povere, analfabete, che si
muovevano sperando di conquistare un pezzo di terra.
Per tutto il periodo borbonico, dalla cacciata
dei Francesi all’arrivo dei Piemontesi, briganti e contadini in lotta si alternarono, come conferma, del resto, la
dinamica della terribile reazione di Isernia e circondario dell’autunno ’60.
In ambito letterario è di assoluto rilievo il
romanzo Signora Ava (1942) di
Francesco Jovine, la cui vicenda è ambientata
tra il 1859 e il 1860, quando sul
tranquillo paese molisano di Guardialfiera irrompe la Storia, con i suoi eventi
drammatici e le sue contraddizioni,
facendo di braccianti e cafoni
dei banditi e briganti.
[7] Napoli
nel 1860 era la terza capitale d’Europa e la città più popolosa d’Italia; alla
Mostra di Parigi del 1856 aveva ricevuto il premio per essere il paese più
industrializzato d’Italia; terzo nel mondo; in effetti fu la prima città ad
avere l’illuminazione pubblica a gas, e un tratto ferroviario (Napoli –
Portici).
[8] I più
poveri restarono fedeli al Borbone,
chiamato “Tata”, perché visto come il padre protettivo e
benevolo, sempre pronto ad aiutarli in caso di siccità e carestie; il re era
considerato il custode dei valori tradizionali, ed era circondato da un alone
di sacralità al punto che il suo ritratto (e quello della regina) era portato
in processione come le immagini dei santi.
[9]
Ferdinando II morì ad appena 49 anni, ed era ben più carismatico del figlio
Francesco.
[10]
Gaeta, città martire della resistenza all’invasione piemontese, fu bombardata
per quattro mesi dal generale Cialdini nonostante la firma della resa.
[11]
Alberto Mario, l’intellettuale veneto, fervente mazziniano, amico di diversi
poeti e scrittori, tra cui
Carducci, capitano garibaldino,
marito della giornalista inglese Jessie
Withe che lo aveva conosciuto in carcere,
è tra l’altro autore di un
caposaldo della memorialistica garibaldina,
La camicia rossa, da cui sono tratte queste parole del capitano
Emilio Zasio.
[12] Il
nuovo Parlamento era rappresentato solo da ricchi, aristocratici e
professionisti (dovevano avere almeno 30
anni e un censo di almeno 30 £).
[13]
A.Mario, La camicia rossa, in
“Almanacco del Molise 1973”, Campobasso, Editore Enzo Nocera, 1972, p.230.
[14]
G.Fortunato, Scritti vari, Trani, 1900, p.381.
[15] Ibidem,
p.380.
[16] Andava fucilato immediatamente chi veniva
trovato con un’arma di “qualunque specie”. Quindi, i contadini dovevano recarsi
nei campi a mani nude, senza falce,
coltello, accetta, e altri attrezzi; inoltre, era proibito portare pane e altri
viveri fuori dalle mura del comune; proibito far arrivare dai paesi vicini cibo
per i contadini, ai quali si concesse “la modica quantità, per uso personale”;
proibito andare nei boschi; obbligo di abbattere stazzi e capanne. Cfr.Pino
Aprile, Terroni, Milano, Ed. Piemme, 2010, pp.70-71.
[17]
Antonio Ruggieri, Cafoni e Galantuomini nel Molise fra brigantaggio e
questione meridionale, Campobasso, Rufus, 1984, p 128.
[18] Tra i due termini , brigante e brigantaggio,
corre - ha affermato Vincenzo Padula - un grande divario; il brigante
c’è quando il popolo non lo aiuta, quando si ruba per vivere, e il brigantaggio
c’è quando la causa del brigante è la causa del popolo, e, se non è così, il
ribelle non dura.
[19] D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al
1958, Bari,1959, p.123.
[20]
Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano,
Feltrinelli, 1974, p. 138.
[21] Le
teste di diversi briganti finirono sul tavolo del medico veronese Cesare
Lombroso (1835-1909), che studiava la conformazione dei crani allo scopo di elaborare le sue teorie di
antropologia criminale. L’omonimo museo di Torino sarà da lui fondato nel 1876.
[22]
Valentino Romano, Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del
Sud (1860-1870), Controcorrente, Napoli, 2007, pp.100-101.
[24]
Raffale Nigro, Introduzione a Brigantesse.
Donne guerrigliere contro…di Valentino Romano, cit.
[25]
L’esistenza delle donne briganti era breve, non solo per la vita violenta che
conducevano, ma anche per le pessime
condizioni igieniche delle carceri in cui finivano, una volta condannate.
Tristemente famose come destinazione di pena per i briganti, quelle di
Finestrelle, in Piemonte.
[26]
Carmine Crocco Donatello era compaesano di Giustino Fortunato, e bracciante
nella sua famiglia; aveva il suo quartier generale in una masseria dei
Fortunato, a Rionero in Vulture. A loro non fu mai torto un capello, per suo
ordine, benché fossero grandi proprietari. Secondo Pino Aprile (che riprende l’autobiografia del
brigante, cfr. Terroni, cit., p. 80 e sgg.), Crocco, ex soldato
borbonico, divenne brigante dopo che un signorotto prese a calci sua madre,
incinta, che abortì e perse la ragione; la stessa persona fece incarcerare suo
padre, mentre la sorella fu sfregiata dal suo aggressore, per avergli
resistito, scatenando la vendetta di Carmine che lo uccise. Divenuto
garibaldino nella speranza di farsi perdonare le colpe passate, combatté sul
Volturno, ma quando si accorse di esse re comunque ricercato dalle autorità giudiziarie, tornò sui
monti a organizzare la guerriglia contro lo Stato unitario, rivelandosi un
autentico capo militare della resistenza contadina.
[27] Il potere politico e
statuale approfittava delle liti e gelosie nelle bande per annientarle
utilizzandole come “instrumentum regni”; d’altra parte non aveva interesse a
mostrarsi, al cospetto dell’opinione pubblica, troppo rigido nei riguardi delle
donne, che solitamente raccontavano di essere state costrette con la forza,
allo scopo di ottenere una pena più lieve. Una di esse è Maria Capitano di S.Vittore. che a 15 anni
seguì il brigante Agostino Luongo, ma in seguito - per avere una pena più lieve - riuscì a
dimostrare con falsi testimoni prezzolati di averlo seguito con la forza.
[28] Il
bandito Di Paolo ha ispirato la figura del protagonista del romanzo di Felice
Di Bartolomeo Caprannunzio. Per le notizie su queste brigantesse cfr.
Barbara Bertolini in Il tempo sospeso,
Donne nella storia del Molise, di Idem e R.Frattolillo, Filopoli, Campobasso, 2007.
[29] Michele Caruso fu fucilato “nella”
schiena il 1863 a Benevento. Aveva 26 anni.
[30] Il
suo esempio di coraggio, raccontato da Berengario Galileo Amorosa, ha ispirato delle opere letterarie, come
quella, omonima, del riccese Giuseppe Scarnata.
[31]
Vincenzo Berlingieri, Storie di briganti. Il brigantaggio in Roccamandolfi.
Domenico Fuoco, Associazione Culturale “Pasquale Vignola”, Riccia, 1991.
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