martedì 11 febbraio 2014

Donne contro l’Unità d’Italia: le brigantesse

                                               di Rita Frattolillo

La recente celebrazione risorgimentale,  se ha avuto il merito di mettere   qualche volta  l’accento sul contributo dato dalle donne alla causa dell’Unità, cominciando a  rimuovere il  “Risorgimento invisibile”, ha purtroppo perso l’occasione di togliere dall’angolo le donne che, armi in pugno, resistettero – a torto o a ragione – all’invasione piemontese del territorio meridionale.
Fortunatamente, negli ultimi anni, la letteratura sulla guerra “cafona”, che vide impegnati in una lotta senza quartiere per anni, all’alba dell’Unità, i briganti contro i “galantuomini” e contro i “Piemontesi”, si è arricchita di titoli importanti incentrati sulla figura delle donne che, per forza, per amore o per convinzione, sparirono nei boschi, e, vestite da uomo, imbracciarono uno schioppo entrando direttamente in azione contro gli invasori, difendendo il Sud.
Quando, dove e perché è nato il brigantaggio femminile? Quale fu la vita delle brigantesse alla macchia? Il loro ruolo e la loro funzione nella banda? Quale il loro rapporto con i maschi, il loro comportamento in combattimento, nei processi e in prigionia?


 In passato le risposte a tali domande sono state il più delle volte vaghe e venate di pregiudizi, a causa del ritardo degli storici nel considerare attivamente il ruolo delle donne briganti.
 Così, Jacopo Gelli[1], che si è occupato in un lavoro organico della presenza femminile nel brigantaggio, ricalca la visione dominante negli anni Trenta del Novecento, che era composta da “drude”, cioè donne di piacere al servizio di delinquenti e assassini.
 A poco a poco,  il quadro si è arricchito, grazie alle ricerche sugli atti processuali [2] e sulle cronache dell’epoca, da cui sono  emersi  diversi nomi.
Recentemente una lettura più oggettiva del  brigantaggio post-unitario, visto da una parte come espressione dell’esasperazione contadina per il problema delle terre e del legittimismo borbonico, dall’altra come espressione dell’avversione verso i “galantuomini” liberali e verso il nascente Stato italiano, ha gettato nuova luce sulla partecipazione della donna alla lotta brigantesca, sia come fiancheggiatrice che come capobanda. I volti e le vicende affiorati hanno consentito una svolta decisiva a ricostruzioni rimaste ancora legate ad elementi leggendari, per fare spazio ad approcci che, superandoli[3], hanno evidenziato la massiccia presenza delle donne al processo di ribellione del Mezzogiorno all’alba dell’Unità. La loro determinazione e il loro coraggio in azione, il loro comportamento in diversi casi autonomo e psicologicamente indipendente, hanno ribaltando il ruolo stereotipato di soggezione e rassegnazione tradizionalmente attribuito alle donne del Sud;
 non solo fiancheggiatrici, ma autrici di atti violenti per un’affermazione identitaria e/o  per ribellarsi ai soprusi.
A chi ancora oggi  spiega sbrigativamente la presenza femminile tra i briganti come conseguenza di stupri, che avrebbero costretto le vittime ad allontanarsi dal paese e darsi alla macchia, per sottrarsi al giudizio della propria comunità, si può obiettare che questo è vero, ma solo per alcune brigantesse, mentre la tipologia fin qui individuata rimanda a casi ben più diversificati;
senza contare che le foto sbiadite di Google, che ci restituiscono volti segnati di donne dallo sguardo forte,  riprese in duri atteggiamenti di lotta, mal si conciliano con l’immagine patetica di povere ragazze violate….
E forse non è fuori luogo ricordare, a conferma della molteplicità dei casi, che la prima figura di brigantessa di età moderna individuata, attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816), Francesca La Gamba[4], era una tranquilla filandiera calabrese di Palmi (RC); tranquilla   finché non le  uccisero i figli.
 Fu questa la causa prima che trasformò la pacifica popolana  in Erinni vendicatrice.
 Francesca La Gamba, avvenente ed esuberante nel carattere, era madre di tre figli.
Suscitò le mire di un ufficiale francese, che, forte della sua divisa e del suo potere, non esitò a farle delle avances, e tentò di sedurla. Ma la donna, fiera e fedele al legame maritale, respinse l’uomo, che, ferito nell’orgoglio, progettò un’atroce vendetta, facendo affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito francese. Il mattino seguente furono arrestati come autori della bravata  i figli di Francesca, e, dopo un processo sommario, fucilati.
 Nella reazione drammatica che  travolgerà Francesca, armandole la mano e trasformandola in una “donna di piombo”, si possono  cogliere aspetti di natura diversa che si intrecciano con la motivazione principale, il gravissimo torto subito.
 Difatti allo stato di vessazione, alla sete di vendetta, si mescola  un coagulo di sentimenti riconducibili  alla consapevolezza della prevaricazione e dei soprusi commessi dagli occupanti, alla constatazione del loro disprezzo per gli affetti altrui feriti, e, infine, all’ansia di rivendicazione sociale contro i “conquistatori”.
Pazza di dolore per la sorte tragica toccata ai figli, la donna scappò dal paese, si unì ad una banda di briganti della zona, indossò abiti maschili e dimostrò grande ardimento nelle azioni di guerriglia. A questo punto la sua biografia prende i colori del mito, perché si vuole che, tempo dopo, Francesca facesse prigioniero proprio quell’ufficiale.
La sua ferocia -  racconta la leggenda -  non conobbe limiti: lei gli strappò con una coltellata il cuore dal petto, e lo divorò ancora palpitante.
La vicenda riguardante Francesca appare isolata, poiché se è vero che già nel periodo francese  s’era registrata la presenza [5]di bande[6] in tutto il Mezzogiorno, il brigantaggio organizzato esplose una quarantina circa di anni dopo,  intorno al 1860, e quello femminile ebbe un ruolo autonomo proprio nel periodo post-unitario.
Anche se i briganti scorrazzavano ovunque, dalla Sardegna al Lombardo-Veneto, l’epicentro del fenomeno, che conobbe picchi di recrudescenza dopo l’insurrezione di Isernia (30.09.1860) e dopo la crisi di Aspromonte (29.09.1862), fu al Sud, perché nell’incontro tra Nord e Sud il trauma del regno duosiciliano fu il più  lacerante e profondo.
Il popolo meridionale difatti non si spiegava perché un regno retto da una delle più antiche dinastie europee, all’avanguardia in certi settori [7], un regno libero e indipendente, senza lo straniero in casa - come era accaduto invece al Lombardo-Veneto - si trovasse “conquistato”, annesso, e, come se non bastasse, venisse accantonato, emarginato (quando non sfruttato) dalla politica del nuovo governo.
Il Molise, alla periferia dell’ex regno borbonico, e strategicamente importante, trovandosi allo snodo tra Sud e Centro, era attraversato da fermenti antitetici, da dinamiche politico-sociali contrastanti: da una parte rigurgiti di realismo borbonico - i nostalgici del vecchio[8] -, dall’altra spinte liberali non sempre sincere, dettate dall’opportunismo.
Quando l’inesperto Francesco II, che a ventitré anni (nel1859)  era successo al padre Ferdinando II [9], dopo la tragica capitolazione[10] dell’ultima roccaforte borbonica, Gaeta (febbraio’61),  riparò a Roma,  nei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie  sorsero ovunque comitati segreti filoborbonici allo scopo di sollevare le popolazioni contro il nuovo governo. 
Ed era gioco facile, perché le classi rurali, i cafoni,
 quegli straccioni con sandali di pelle di capra, con feltro a tronco di cono, discendenti legittimi di quei terribili e pomposi guerrieri che facevano sudare sangue ai Romani intesi a domarli [11]
si aspettavano giustizia sociale dal nuovo governo, ma le speranze ingenerate si erano presto rivelate infondate. Purtroppo nella tanto attesa ripartizione delle terre, malgrado l’eversione della feudalità e l’esproprio dei beni ecclesiastici,  grazie all’alleanza della borghesia del Nord con quella meridionale e ai sofismi delle leggi del nuovo Parlamento, si agì con i criteri degli interessi di classe, a danno dei più poveri, che continuarono a lavorare la terra per conto dei galantuomini[12].
Evidentemente era più facile cambiare la geografia anziché l’assetto socio-economico del Paese.
 C’è una frase telegrafica, che  il capitano garibaldino Alberto Mario mette in bocca  al vetturino  a cui il maggiore bergamasco Francesco Nullo aveva domandato spiegazione dell’appellativo “cafone”: « Cafoni, Eccellenza, si chiamano i contadini, e galantuomini i proprietari»[13].
Frase che, nella sua asciuttezza, ha un significato profondo, perché nell’antitesi tra i due comprimari - cafoni e galantuomini - contiene  l’essenza del fenomeno del brigantaggio, che è visto da Giustino Fortunato come  l’ultimo atto del dramma, terribile ne’ suoi episodi e ne’ suoi aspetti, della questione demaniale[14].
 La cosiddetta guerra cafona, infatti,  non si sarebbe manifestata in maniera tanto massiccia e virulenta senza l’aggravarsi della depressione economica, e - soprattutto - senza l’acuirsi della frattura  insanabile tra cafoni e galantuomini meridionali all’indomani dell’Unità.

Dopo lo scioglimento dell’esercito borbonico, gli ex soldati si trovarono allo sbando, e i giovani persero una possibilità di sbocco occupazionale, con il risultato che si ingrossarono le schiere di soldati senza esercito e di mancati soldati, aggravando la crisi socio-economica.
Come se non bastasse, il richiamo alle armi del nuovo  esercito venne spesso occultato da funzionari ex borbonici allo scopo di  generare tensioni e disordini, sicché una massa di giovani si trovò bollata di diserzione, alcune volte senza neanche saperlo. Altri, poi, furono consapevolmente renitenti alla leva, e, a conti fatti, alla morte in battaglia preferirono la “fatìa” dei campi, loro fonte di sostentamento.
  Lo sconquasso sociale e politico arrivò al massimo, il destino apparve segnato: rassegnarsi o ribellarsi.
Il movimento spontaneo, che storicamente si rinnovava ad ogni cambiamento politico, frutto del secolare abbrutimento di miseria e ignoranza delle nostre plebi rurali - ha scritto Giustino Fortunato - questo malessere sociale, fu deliberatamente sfruttato a scopi politici, inasprito e strumentalizzato dalla delinquenza comune[15].
Infatti ai contadini senza terra e ai soldati senza esercito, ai disertori, si aggiunsero gli evasi dai bagni penali borbonici, e in seguito i cafoni impoveriti[16] dall’usurpazione dei galantuomini e scappati dai paesi per sfuggire alla persecuzione dell’esercito.
Soldati borbonici, sudditi, cafoni e veri briganti finirono insieme, e questo li rese, per l’invasore e i libri di storia, indistintamente, briganti [17].
Tutti quanti, una volta alla macchia, si organizzarono in  guerriglia, seguendo la strategia delle azioni effettuate da piccoli gruppi che, concluso l’attacco, si disperdevano alla spicciolata per riunirsi in seguito in un punto prestabilito.
 Con l’Italia appena unita, le “compagnie”, quindi, aumentano, e dal Molise al beneventano, dalla Capitanata alla Penisola salentina, fino all’estrema Calabria, sventolando la bianca bandiera borbonica,  infestano i paesi, bloccano le vie, impauriscono e ricattano i possidenti, rendono impossibile la vita e il lavoro quotidiano nei campi.
 Conoscendo bene i posti, sanno dove nascondersi, e si danno ai saccheggi, alle ruberie, ai sequestri, agli incendi, sicuri di farla franca, anche perché contano sulla complicità di manutengoli, compaesani e parenti. Ci contano non solo perché ogni tanto si comportano da Robin Hood, ma anche perché fanno leva sulla sete di rivendicazione sociale del popolo nei confronti dei proprietari liberali e sulla voglia di dare scacco ai “Piemontesi”, considerati bestemmiatori e miscredenti.
Scesi con un esercito che obbediva a un re straniero con baffoni e pizzo come gli odiati liberali, che applicava leggi straniere, che parlava una lingua straniera, disgraziatamente la stessa del decennio francese, e che dunque era considerato alla stregua di un esercito di occupazione, come lo era stato quello francese,  di cui si conservava amarissima memoria.
Fra Diavolo, i Pronio, i Mammone del periodo sanfedista, oggi  si chiamano Centrillo (Domenico Coja, di Castelnuovo al Volturno, provincia di Isernia, ex soldato borbonico), “caporal” Nunzio Di Paolo di Macchiagodena, i Primiani che imperversano nel Basso Molise, “colonnello” Michele Caruso,  il capo lucano Carmine Crocco Donatello, Ninco NancoDomenicangelo  Cecchino e Samuele Cimino di Roccamandolfi.
La violenza esplode,  si registrano  gravi episodi che mettono in difficoltà l’esercito piemontese, che, avventurandosi in luoghi impervi che non conosce, cade nelle imboscate, vede impotente i suoi uomini falciati da un nemico invisibile che morde e fugge.
Il fenomeno della rivolta meridionale  - definita resistenza patriottica, insorgenza antisavoiarda, guerra civile - bollata semplicisticamente come “brigantaggio”[18], approda in Parlamento, il quale, anziché rimuovere le cause con una saggia politica di riforme, sceglie la via della repressione, dimostrandosi incapace di far fronte alle sfide. Viene adottata la Legge Pica (15 agosto1863, in vigore per due anni), che sospende le libertà costituzionali nei territori “infestati”, instaura il terrore, la fucilazione sul campo (con annessi danni “collaterali”, tra cui lo stupro delle donne dei “ribelli”), facendo della repressione più rigorosa non una misura eccezionale, ma la regola sanzionata dal diritto[19].
Nella sola Sicilia si contano 5000 morti nel solo 1866 [20] .
 In quegli anni un ruolo sempre maggiore è esercitato dalla fotografia come mezzo di propaganda per i successi sabaudi:  le foto dei briganti uccisi [21], scattate dai fotografi al seguito dell’esercito, che li mostrano denudati, mutilati, spesso decapitati, erano consegnate alla stampa per testimoniare la linea dura del governo e le sue vittorie.
 Tra questi documenti visivi spicca quello dell’unica brigantessa uccisa in combattimento, Michelina Di Cesare (1841-1868), di Terra di Lavoro, un’icona del brigantaggio, la più ritratta nei testi sull’argomento, dapprima giovane e bella in abiti tradizionali e con la doppietta, poi fotografata  nuda e sfregiata in seguito alla cattura e all’uccisione.
 Il  suo cadavere denudato fu esposto con quello del suo  compagno Francesco Guerra, ex soldato borbonico, nella piazza centrale di Mignano (Caserta) a monito della popolazione, per intimidirla[22].
 Sono passati alla storia i massacri perpetrati dall’esercito italiano a Pontelandolfo e Casalduni (Benevento), paesi che all’epoca appartenevano al Molise, e che furono quasi completamente rasi al suolo il 14 agosto 1861 come risposta alla strage di 45 militari piemontesi avvenuta qualche giorno prima ad opera di alcuni briganti e contadini del posto aizzati anche dai preti che inveivano contro il nuovo governo, considerato un covo di scomunicati.
Il regno sabaudo, che ebbe un modo di procedere impregnato anche di disprezzo dando una lettura venata di razzismo di quanto accadeva nel Meridione[23], impiegò una diecina d’anni di violenta repressione in cui schierò la metà delle forze disponibili per debellare le 400 bande armate, con 80mila e più uomini alla macchia, senza contare le migliaia di fiancheggiatori.
E’ in questo contesto magmatico che matura dunque il dramma della brigantesse,  dramma della rottura dell’equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze senza più genitori, di vedove: è dramma di donne disperate, che, vedendo crollare il mondo intorno a cui avevano costruito la loro pur misera esistenza, decidono di aggredire la vita, e si dimostrano nei fatti capaci di coraggio e determinazione.
Donne come maschi, spesso più forti dei maschi nella sofferenza, nella sopportazione della fatica, delle privazioni  ha affermato Raffaele Nigro[24].
 Ma anche nella ferocia: sono donne giovani e spietate quelle che, per sfuggire alla legge, per sete di vendetta, per riscattarsi da una vita miserabile, imbracciano un fucile, e, in abiti maschili, contendono con altri briganti il controllo delle regioni meridionali all’esercito.
 Dai loro brevi giri di vite[25], su cui sono germogliate ballate popolari e rappresentazioni sceniche, sono emersi alcuni nomi.
L’unica ad essere stata condannata a morte mediante fucilazione alla schiena dal Tribunale Militare, nota come “la brigantessa delle brigantesse” è la calabrese Marianna Oliverio (1841-?), “Ciccilla”: aveva ucciso con una trentina di colpi d’ascia la sorella Teresa che aveva avuto una relazione con suo marito Pietro Monaco, ex sergente borbonico, e quindi si era data alla macchia con lui.
 Vestiti i panni di uomo, operò nella Sila, e quando Pietro morì in un attentato, assunse il comando della banda, distinguendosi per la ferocia con cui infieriva a rasoiate sui cadaveri degli uccisi. La sua pena fu tramutata in ergastolo,  scontò nella prigione di Finestrelle in Piemonte.
 La più crudele, Marianna Corfù,  era l’amante del sanguinario ex soldato borbonico Ninco Nanco, luogotenente di Crocco, evaso da Ponza nel ’60. Aveva la macabra abitudine di  bere nel teschio di un bersagliere da lei stessa ucciso.
La meno giovane era la lucana Arcangela Cutugno, nota e temuta come guerriera abile a cavallo e a tirare di schioppo.
 La più nota è l’irpina Filomena Pennacchio (n.1841-?; all’anagrafe De Marco, ma chiamata “pennacchio” per il vezzo del cappellino piumato sulle ventitré). Figlia di macellaio e sguattera fin da piccola, esordì uccidendo il marito,un cancelliere di Foggia, che aveva sposato per risollevare le sorti della famiglia, quando, stanca dei continui maltrattamenti, gli conficcò un lungo spillone in gola. Rifugiatasi nel bosco di Lucera per evitare il carcere, si aggregò alle bande locali; divenne l’amante di Caruso, poi del capo lucano Carmine Crocco[26] , poi di Giuseppe Schiavone.
 Intrepida combattente, partecipò all’eccidio di una decina di soldati a Sferracavallo, sulla consolare  Na -CB, con Caruso, Schiavone e un’altra sessantina di uomini.
 Diversi tribunali, tra Potenza, Avellino e Lucera, testimoniano  numerosi capi d’accusa, dall’estorsione all’omicidio volontario. Fu catturata, pare, in seguito alle gelosie di Rosa Giuliani, precedente compagna di Schiavone, che denunciò il rifugio della banda; Schiavone fu catturato (1864) e fucilato. Rimasta sola e incinta, Filomena si lasciò allettare dalla promessa  di uno sconto di pena, parlò: Giuseppina Vitale, Maria Giovanna Tito, donna di Carmine Crocco, e Agostino Sacchitiello,  luogotenente di quest’ultimo, finirono nelle patrie galere.
La delazione[27] servì allo scopo  perché dopo sette anni di carcere, nel 1872,  Filomena se ne tornò a casa.
 Nei processi politici per atti di brigantaggio  consultati presso l’Archivio di Stato di Campobasso, ho colto più di una volta, tra le righe, lo stupore dei militari quando scoprivano che le complici, oltre a nascondere i ricercati  e a curarli, li coccolavano procurando loro persino il tabacco da fiuto.
 Le fiancheggiatrici - figure distinte dalle donne briganti - erano parenti o ammiratrici dei briganti perché sfidavano la legge, e allora, vincendo la paura, uscivano di casa di notte per portare cibo, notizie, affetto, cure ai feriti, sviavano con mille astuzia le ricerche dei militari.
Molto numerose, erano veri segmenti collaterali, indispensabili per le bande, e tuttavia non bastavano, perché una banda bene organizzata non poteva fare a meno di avere con sé delle donne (anche se spesso scatenavano lotte interne e gelosie), e non solo per motivi logistici o alimentari.
C’era anche e sopratutto la cupidigia maschile, la voglia di soddisfare i propri istinti, e quindi la caccia a donne giovani e piacenti era sempre aperta, per le strade di campagna, nei casolari, persino in paese.
 Caccia che non teneva conto delle conseguenze, perché poi l’eventuale maternità diveniva un handicap per la banda, al punto da decretare, spesso, la condanna a morte per la malcapitata.
Anche se è difficile operare una scelta, riferirci ad alcuni profili di donne briganti può aiutare a chiarire le tipologie sinora identificate.

Maria Giantommaso di Rotello (CB), rappresenta il tipo della donna di brigante “per forza”: venne rapita, ridotta in schiavitù, fortunatamente per poco, anche se quel “poco” la segnò  per sempre. Nel febbraio 1863, a 19 anni, mentre tornava dai campi dopo una giornata di fatica con altre sei donne, tra cui la madre e le sorelle, Maria fu rapita durante un terribile assalto  dal capobanda di Macchiagodena  “caporal” Nunzio di Paolo[28],  uomo di Caruso.
Il suo incubo durò 17 giorni durante i quali, dopo essere stata stuprata da quattro della banda,  vestita da maschio e coi capelli tagliati, dovette seguirne i movimenti  e soddisfarne le voglie. Un attacco della banda contro la Guardia nazionale nelle campagne di Chieuti la salvò, perché Maria riuscì, sia pure ferita, a dileguarsi; alcuni contadini l’aiutarono a ritrovare la strada di casa. Ma le umiliazioni non erano ancora finite, perché, siccome con il danno arriva spesso anche la beffa, non le venne neanche risparmiata una dolorosa ispezione corporale eseguita, figuriamoci, con i rudimentali strumenti dell’epoca, allo scopo di verificare quanto denunciato.
La donna di brigante “per forza” più popolare del Molise è indubbiamente Filomena Ciccaglione di Riccia (CB).
Il brigante Michele Caruso (1837-1863), originario di Torremaggiore (Puglia), di mestiere cavallaio,  ma promossosi “colonnello” per via dell’incarico ricevuto da funzionari filoborbonici di sollevare le popolazioni contro il nuovo governo, seminava  il terrore tra Puglia, Molise e Abruzzo. Dongiovanni impenitente,  faceva collezione di belle ragazze, e proprio questo penchant fu causa della sua morte.
 Dal giugno 1863 aveva per amante la giovanissima Maria Luisa Ruscitti di Cercemaggiore,  ma ciò nonostante quello stesso autunno si invaghì di Filomena Ciccaglione,  che  aveva adocchiato durante i suoi assalti alla masseria della giovane nel corso dei quali aveva ucciso tre uomini, tra cui il padre della ragazza. Filomena era bella, non passava inosservata, e lui non riusciva a levarsela dalla testa, per cui organizzò con cura il ratto. Detto fatto.
 Nel folto del bosco Mazzocca dove era stata nascosta, la ragazza, che dopo lunghe quanto inutili resistenze aveva dovuto cedergli, cominciò a meditare la vendetta, e nello stesso tempo approfittava del suo ascendente per intercedere presso il brigante innamorato e far cessare incendi, rapimenti, ruberie.
Intanto il prefetto Arditi, pressato dai riccesi, unì per un’azione più incisiva le forze militari, che sgominarono la banda, ma non il capo, Caruso,  rimasto uccel di bosco. A quel punto, comunque, Filomena vide giunto il momento propizio per la sua vendetta, indicò il nascondiglio alle guardie, facendo catturare Michele (nel bosco Carbonara), che dopo il processo, a Benevento, fu condannato a morte[29]. Ritornata in paese, Filomena si ammalò gravemente di tisi, e tre anni dopo si spense,  a soli 22 anni, nel 1866[30].
Tra le donne sedotte dalla figura del brigante, al punto da diventare brigantesse “per amore”, c’è Maria Luisa Ruscitti di Cercemaggiore (nata nel 1844), che incontrò sulla sua strada il solito Michele Caruso. Ne rimase ammaliata, lo seguì. Si vestì da uomo, apprese alla svelta l’uso delle armi, si rivelò ottima tiratrice e rapidissima negli attacchi, in prima linea negli agguati e nei delitti che compiva a sangue freddo.
 Il 18 agosto 1863, in uno scontro con una colonna di bersaglieri e Guardie nazionali, in cui morirono sette briganti, Maria Luisa fu catturata e condannata a 25 anni. Quando uscì di galera, nel 1888, aveva 44 anni, era quindi ancora giovane, ma ormai la sua vita era finita.
 Un’altra brigantessa è Marta Cecchino di Roccamandolfi (IS).
 La sua sorte è stata indubbiamente tracciata dall’appartenenza ad una famiglia di briganti: infatti il fratello Domenicangelo, dopo aver partecipato con Samuele Cimino alla feroce reazione di Isernia dell’autunno 1860, si era dato alla macchia sulle montagne del Matese, e aveva formato  una feroce “compagnia”.
Nel 1861, a forza di fare da corriere al fratello sulle montagne, Marta, 25enne, quindi per quei tempi considerata già zitella, si innamorò di Samuele, e un bel giorno di primavera  non tornò a casa, richiamata dalla sete di libertà e indipendenza. Si gettò nelle braccia di Samuele, che era, pare, un bell’uomo, e poi, infilati i pantaloni, cappellaccio a punta con nastro rosso, baffi tinti col carbone, imbracciò lo schioppo; con l’amore, scoprì presto anche l’ebbrezza di  incutere terrore ai malcapitati.
Lì alla macchia si mangiava e si beveva a sbafo, altro che casa sua. La miseria era alle spalle,  lei e gli altri mangiavano meglio degli odiati galantuomini: caciocavalli, prosciutti, uova, lardo, carne, ogni bendiddio razziato a destra e a manca. Unica precauzione,  evitavano di cucinare, perché i grossi fuochi, il fumo, gli odori, avrebbero potuto attirare l’attenzione e rivelare la loro presenza.
Samuele era  generoso, la riempiva di oro, anelli, catene, scekkuaglie (orecchini), tutto bottino delle ruberie, e lei, Marta, qualcosa la nascondeva sotto a un sasso; in futuro, dovette pensare, non si sa mai...
Il 13 (altri storici dicono il 14) agosto 1861, la banda  Cecchino-Cimino al completo compie scorrerie a Cantalupo e  poi a Roccamandolfi. Passa per le armi sul Colle Santo otto persone, tra cui alcuni preti. Incendia la cancelleria comunale e l’archivio. Dopo, saccheggia altri paesi del Matese. Di ritorno,  si bivacca e si gioca, quando per motivi poco chiari, forse per affermare la supremazia nel comando, i due capibanda, Domenicangelo e Samuele, si affrontano e si feriscono entrambi, sparandosi.
 A questo punto le testimonianze divergono, rendendo difficile stabilire la verità dei fatti.
Secondo la tradizione popolare raccolta dall’avvocato roccolano Vincenzo Berlingieri[31], adolescente all’epoca dei fatti, Samuele restò a terra ucciso.
 Secondo altre fonti, nel novembre del 1861 venne ucciso in un’imboscata con il giovane figlio Antonio e qualche suo  compagno alla foce del Saccione, mentre secondo altre ancora morì in uno scontro a fuoco con i soldati il 12.3.1862 .
  Domenicangelo, a sua volta ferito durante uno scontro con la guardia nazionale, si nascose in località Macchitelle, ma un contadino lo denunciò, e il brigante venne preso e fucilato (il 5.9.1861 oppure, secondo altri, il 4.10.61).
Comunque, Marta, ormai giunta al quarto mese di gravidanza,  non era più agile come una volta, rappresentava solo un intralcio negli spostamenti veloci, e come un cavallo azzoppato era considerata dai compagni, compreso il fratello.
Fatto sta che, mentre riposava, venne fulminata alle spalle da una fucilata, neanche il tempo di dire amen. Il suo cadavere non venne mai ritrovato, forse perché bruciato, o forse perché uno zio pietoso aveva pensato bene di seppellirlo cercando di non farsi vedere.

Rita Frattolillo - Tutti i diritti riservati 



[1] Jacopo Gelli, Banditi, briganti e brigantesse dell’Ottocento, Firenze, Bemporad, 1931.
[2] Incredibilmente, tra i 218 briganti schedati nel 1862 nell’alto Molise dal prefetto della Provincia non compare neanche un nome di donna. E, le rare volte che le donne dei briganti  sono nominate, di solito nei fascicoli processuali sono accomunate ai loro uomini, perché sono ritenute “semplici” complici; gli atti  raccontano di donne rapite e costrette a uccidere, anche se il più delle volte mentivano per salvarsi, e i giudici in effetti davano pene più lievi; d’altra parte non era “letta”  la  loro volontà  di prendere in mano il proprio destino, di voler giocare un ruolo autonomo; non era forse neanche immaginata la possibilità di una spinta a rompere gli schemi, a essere libere, in barba alle convenzioni del tempo.
[3] Studiosi e letterati si sono spesso  ispirati alle storie delle brigantesse  romanzandone le vicende in  drammi, novelle, canzoni popolari.
[4] www.brigantaggio.net
[5] Nel Molise,  agivano, tra gli altri, i triventini Paolo Vasile e Fulvio Quici; quest’ultiimo – a quanto si sa –   aiutò Raffaele  Pepe  a fuggire da Napoli dopo la caduta della Repubblica Partenopea (1799). Biase Zurlo  nel 1810 denunciava l’esistenza, nel circondario di Bojano, di un nido di briganti, e altri ce n’erano nel Basso Molise, come i Vardarelli (Neomartino), nativi di Celenza Valfortore e residenti a Castelnuovo di Daunia (Foggia). Costoro sono tristemente famosi anche perché uccisero a fucilate Nazario Campofreda (1813) di Portocannone che dava loro la caccia. Finirono qualche anno dopo (1818) a Ururi  per mano del figlio di Nazario, il capitano Nicola Campofreda, che si distinse con i “suoi” albanesi nei fatti d’arme di Isernia dell’autunno 1860. Dagli inizi del XIX secolo  il fenomeno del brigantaggio non si era mai completamente sopito, basti ricordare il clamoroso episodio che vide suo malgrado protagonista lo storico tedesco Teodoro Mommsen, rapito tra Sessano del Molise e Pescolanciano  nel 1846. I briganti scorrazzavano ovunque, dalla Sardegna al Lombardo-Veneto, ma il nome più famoso di brigante, grazie a Giovanni Pascoli, che lo definisce“ re della strada, re della foresta”, è quello del Passator “cortese” (Stefano Pelloni), il quale infestava lo Stato pontificio, rifugio degli sbandati per eccellenza.

[6] E’ stato sottolineato (Enzo Ciconte, Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento, Rubbettino, 2011) che un filo lega -ma nello stesso tempo separa-  “banditi” e”briganti”, nel senso che, mentre i primi erano spesso nobili o signorotti locali in lotta col potere regio, oppure giovani che si ribellavano alle ingiustizie, ed erano colpiti dal “bando” (cioè espulsi dalla comunità), i secondi erano costituiti dalla masse contadine povere, analfabete, che si muovevano sperando di conquistare un pezzo di terra.
 Per tutto il periodo borbonico, dalla cacciata dei Francesi all’arrivo dei Piemontesi, briganti e contadini in lotta si  alternarono, come conferma, del resto, la dinamica della terribile reazione di Isernia e circondario dell’autunno ’60.
 In ambito letterario è di assoluto rilievo il romanzo Signora Ava  (1942) di Francesco Jovine, la cui vicenda è ambientata  tra il 1859 e il 1860, quando  sul tranquillo paese molisano di Guardialfiera irrompe la Storia, con i suoi eventi drammatici e le sue contraddizioni,  facendo di braccianti e cafoni  dei banditi e briganti.

[7] Napoli nel 1860 era la terza capitale d’Europa e la città più popolosa d’Italia; alla Mostra di Parigi del 1856 aveva ricevuto il premio per essere il paese più industrializzato d’Italia; terzo nel mondo; in effetti fu la prima città ad avere l’illuminazione pubblica a gas, e un tratto ferroviario (Napoli – Portici).
[8] I più poveri restarono fedeli al Borbone,  chiamato “Tata, perché visto come il padre protettivo e benevolo, sempre pronto ad aiutarli in caso di siccità e carestie; il re era considerato il custode dei valori tradizionali, ed era circondato da un alone di sacralità al punto che il suo ritratto (e quello della regina) era portato in processione come le immagini dei santi.
[9] Ferdinando II morì ad appena 49 anni, ed era ben più carismatico del figlio Francesco.
[10] Gaeta, città martire della resistenza all’invasione piemontese, fu bombardata per quattro mesi dal generale Cialdini nonostante la firma della resa.
[11] Alberto Mario, l’intellettuale veneto, fervente mazziniano, amico di diversi poeti e scrittori, tra cui  Carducci,  capitano garibaldino, marito della giornalista inglese  Jessie Withe che lo aveva conosciuto in carcere,  è tra l’altro  autore di un caposaldo della memorialistica garibaldina,  La camicia rossa, da cui sono tratte queste parole del capitano Emilio Zasio.
[12] Il nuovo Parlamento era rappresentato solo da ricchi, aristocratici e professionisti  (dovevano avere almeno 30 anni e un censo di almeno 30 £).
[13] A.Mario, La camicia rossa,  in “Almanacco del Molise 1973”, Campobasso, Editore Enzo Nocera, 1972, p.230.
[14] G.Fortunato, Scritti vari, Trani, 1900, p.381.
[15] Ibidem, p.380.
[16]  Andava fucilato immediatamente chi veniva trovato con un’arma di “qualunque specie”. Quindi, i contadini dovevano recarsi nei campi  a mani nude, senza falce, coltello, accetta, e altri attrezzi; inoltre, era proibito portare pane e altri viveri fuori dalle mura del comune; proibito far arrivare dai paesi vicini cibo per i contadini, ai quali si concesse “la modica quantità, per uso personale”; proibito andare nei boschi; obbligo di abbattere stazzi e capanne. Cfr.Pino Aprile, Terroni, Milano, Ed. Piemme, 2010, pp.70-71.
[17] Antonio Ruggieri, Cafoni e Galantuomini nel Molise fra brigantaggio e questione meridionale, Campobasso, Rufus, 1984, p 128.
[18]  Tra i due termini , brigante e brigantaggio, corre  - ha affermato  Vincenzo Padula - un grande divario; il brigante c’è quando il popolo non lo aiuta, quando si ruba per vivere, e il brigantaggio c’è quando la causa del brigante è la causa del popolo, e, se non è così, il ribelle non dura.
[19]  D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1958, Bari,1959, p.123.
[20] Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 138.
[21] Le teste di diversi briganti finirono sul tavolo del medico veronese Cesare Lombroso (1835-1909), che studiava la conformazione dei crani  allo scopo di elaborare le sue teorie di antropologia criminale. L’omonimo museo di Torino sarà da lui fondato nel 1876.
[22] Valentino Romano, Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870), Controcorrente, Napoli, 2007, pp.100-101.
[23] Enzo Ciconte, Banditi e briganti. Rivolta continua… , cit., p.98.
[24] Raffale Nigro, IntroduzioneBrigantesse. Donne guerrigliere contro…di Valentino Romano, cit.
[25] L’esistenza delle donne briganti era breve, non solo per la vita violenta che conducevano, ma anche per  le pessime condizioni igieniche delle carceri in cui finivano, una volta condannate. Tristemente famose come destinazione di pena per i briganti, quelle di Finestrelle, in Piemonte.
[26] Carmine Crocco Donatello era compaesano di Giustino Fortunato, e bracciante nella sua famiglia; aveva il suo quartier generale in una masseria dei Fortunato, a Rionero in Vulture. A loro non fu mai torto un capello, per suo ordine, benché fossero grandi proprietari. Secondo  Pino Aprile (che riprende l’autobiografia del brigante, cfr. Terroni, cit., p. 80 e sgg.), Crocco, ex soldato borbonico, divenne brigante dopo che un signorotto prese a calci sua madre, incinta, che abortì e perse la ragione; la stessa persona fece incarcerare suo padre, mentre la sorella fu sfregiata dal suo aggressore, per avergli resistito, scatenando la vendetta di Carmine che lo uccise. Divenuto garibaldino nella speranza di farsi perdonare le colpe passate, combatté sul Volturno, ma quando si accorse di esse re comunque ricercato dalle autorità giudiziarie, tornò sui monti a organizzare la guerriglia contro lo Stato unitario, rivelandosi un autentico capo militare della resistenza contadina.
[27] Il potere politico e statuale approfittava delle liti e gelosie nelle bande per annientarle utilizzandole come “instrumentum regni”; d’altra parte non aveva interesse a mostrarsi, al cospetto dell’opinione pubblica, troppo rigido nei riguardi delle donne, che solitamente raccontavano di essere state costrette con la forza, allo scopo di ottenere una pena più lieve. Una di esse  è Maria Capitano di S.Vittore. che a 15 anni seguì il brigante Agostino Luongo, ma in seguito -  per avere una pena più lieve - riuscì a dimostrare con falsi testimoni prezzolati di averlo seguito con la forza.

[28] Il bandito Di Paolo ha ispirato la figura del protagonista del romanzo di Felice Di Bartolomeo Caprannunzio. Per le notizie su queste brigantesse cfr. Barbara Bertolini in Il tempo sospeso, Donne nella storia del Molise, di Idem e R.Frattolillo,  Filopoli, Campobasso, 2007.
[29]  Michele Caruso fu fucilato “nella” schiena  il 1863 a Benevento. Aveva  26 anni.
[30] Il suo esempio di coraggio, raccontato da Berengario Galileo Amorosa,  ha ispirato delle opere letterarie, come quella, omonima, del riccese Giuseppe Scarnata.
[31] Vincenzo Berlingieri, Storie di briganti. Il brigantaggio in Roccamandolfi. Domenico Fuoco, Associazione Culturale “Pasquale Vignola”, Riccia, 1991.

Nessun commento: