sabato 9 maggio 2015

TORINO, questa sconosciuta

Tra Casa Savoia e Storia d’Italia

di Rita Frattolillo


 Per anni ho vissuto Torino come un’entità astratta, confinata a distanze siderali, anche perché è davvero “fuori mano”, ci devi arrivare apposta, non è sito che trovi lungo la strada; e poi, da dove siamo noi, per giungere fin lì, è come attraversare le sette leghe delle favole, una successione interminabile di tunnel, viadotti,  pianure e colline. Poi, un giorno, è successo …Quella  prima volta a convincerci fu la “necessità” di visitare il museo egizio,  che sapevamo straordinariamente pieno di reperti. Difatti richiese molto tempo e ancora più concentrazione, tanto è ricco. Dopo, una breve passeggiata lungo le sponde del Po in un’atmosfera surreale e infine una meditazione davanti alla Sacra Sindone, lì nel Duomo, dalle parti di Porta Palazzo brulicante di una colorata folla multietnica e piuttosto déraciné. Poi, via.

Un mordi e fuggi, insomma. In seguito, l’ obiettivo è stata la Venaria reale. Una visita più meditata. La Reggia di Venaria, a N-O di Torino, fu voluta a metà Seicento come residenza di caccia da Carlo Emanuele II. Ideata da Amedeo di Castellamonte, fu poi trasformata da V. Amedeo II, che chiamò l’abate messinese nonché architetto  Filippo Juvara. Questi  creò la Galleria grande, la cappella di S. Uberto, la scuderia grande e la citroniera; in seguito Benedetto Alfieri (zio del trageda astigiano Vittorio) vi realizzò il rondò con le statue delle stagioni. Ma io qui voglio raccontare del terzo tentativo di avvicinare la culla dei re d’Italia e prima capitale d’Italia. Vediamo.


Il cuore antico di Torino pulsa a piazza Castello, fulcro della corte e  centro di comando, principale luogo di rappresentanza della magnificenza sabauda.
Da qui si dipartono 18 km. di sopportici, costruiti per proteggere dalla pioggia la passeggiata… dei principi. Su un lato, preceduta dall’ampia corte d’onore chiusa dalla superba inferriata, si stende la lunga facciata del Palazzo Reale, e  sull’altro, si erge Palazzo Madama, che riassume da solo tutta la storia della città; al principio era una Porta con le sue torri costruita dai Romani; nel Medioevo si trasformò in fortezza, e poi nel castello dei principi di Acaia.
Le superfetazioni successive si notano facilmente, perché la facciata antica, che dà verso il Teatro Regio, è di cotto rosso, e comprende i due torrioni laterali, mentre il prospetto  che guarda verso Palazzo Reale è marmoreo, trionfo barocco tipico dello stile di Filippo Juvara, che impresse il volto artistico a diverse altre costruzioni regie dei dintorni.
Ma si deve a due  “madame” reali, Cristina di Francia e  Giovanna Battista di Savoia-Nemours, il rimodernamento dell’edificio, scelto, tra Sei e Settecento, come propria residenza, e culminato con il progetto juvariano (1718-1721). Nell’Ottocento, alla vita di corte subentra la politica, e quindi Carlo Alberto fa collocare nel circolare  salone delle feste il primo Senato del regno. E’ qui  che viene proclamata tra gli applausi la nascita del regno d’Italia.


Dal 1934 Palazzo Madama ospita le collezioni di arte antica, dal Medioevo al Barocco, ed è per me una fortuna insperata poter ammirare un’opera –prestata dagli Uffizi – dell’artista seicentesca nota più che per il suo incredibile talento, per il processo che inflisse al suo stupratore: uno scandalo nella Roma papalina! La tela Santa Caterina d’Alessandria è stata collocata di fronte a un quadro del padre dell’artista, pittore anch’egli, Orazio Gentileschi. Il raffronto tra le due opere è, manco a dirlo, immediato, e il mio giudizio pencola decisamente a favore della donna – ma forse non sono obbiettiva, mi faccio guidare dalla mia preferenza per Artemisia. La tavolozza scelta, i toni morbidi, le luci giuste, la figura della santa ripresa in atteggiamento mistico mentre subisce il martirio della ruota, tutto di questo quadro mi convince e mi rapisce …Gli esperti sono del parere che è la stessa Artemisia ad essersi raffigurata nei panni della santa, però io mi chiedo se  qualche motivo particolare – e non la solita, ma sempre benvenuta committenza - ha  indirizzato la pittrice verso l’immagine di questa principessa santa, che, secondo alcuni studiosi,  assommerebbe in sé, tra mito e culto, il fascino della sapiente Caterina, la seduzione della regina di Saba, la cultura della dotta e pagana Ipazia, linciata dalla folla nel 415 (e poi bruciata), proprio ad Alessandria d’Egitto, e considerata fin da allora martire della libertà di pensiero.

 All’interno della cancellata con i due Dioscuri antistante Palazzo Reale, una viuzza porta a piazza Duomo, chiesa dedicata a S. Giovanni Battista, e qui ravviso due  legami sorprendenti con il Molise, la sacra Sindone e…..

Chiesa famosa in tutto il mondo cristiano perché ospita la sacra Sindone, il lenzuolo in cui secondo la tradizione fu avvolto Gesù nel sepolcro. Questo telo ha influito non poco all’affermazione della signoria sabauda nel corso dei secoli.
 Nel braccio sinistro del transetto, esso è conservato in una sontuosa cappella sormontata dal palco reale.
La Sindone ha avuto una vita molto movimentata, come si deduce dalle notizie raccolte, ed ha diverse “copie”.
La sua storia comincia nel lontano 544, quando si parlò di una straordinaria immagine d’uomo sofferente su tela conservata in un paese turco, Edessa (oggi Urfa).
Verso il 944 venne trasferita a Costantinopoli, ma scomparve, a detta del crociato Robert de Clari, nel 1204. Nel 1353 risulta in possesso di Goffredo di Charny (Lirey), ma, giusto un secolo dopo, Margherita di Charny cede la Sindone al duca Ludovico di Savoia, che la custodisce a Chambéry. Giulio II, nel 1506, concede il culto liturgico della Santa Sindone, ma il 4.12.1532 scoppia un incendio nella cappella, il primo di diversi incendi successivi. L’elevata temperatura fonde l’argento  del coperchio della cassetta d’argento contenente il lenzuolo ripiegato (in 48 parti) e una goccia attraversa i vari strati del sacro telo. Due anni dopo, le clarisse di Chambéry lo riparano applicando i rappezzi a forma triangolare. Il 14 settembre 1578 E. Filiberto di Savoia trasferisce (con il pretesto di abbreviare il pellegrinaggio di S. Carlo Borromeo) il sacro lino a Torino, e il 1° giugno 1694 esso è solennemente collocato nella Cappella costruita su disegno di Guarino Guarini. Sicuramente non è un caso che negli stessi anni  di E. Filiberto, un altro Savoia, Carlo Emanuele I, commissionò la copia del telo per donarla al re “cattolicissimo” di Spagna Filippo II. Questi prima di morire restituì, quale segno di amicizia, la preziosa copia all’arcivescovo di Bari che anni prima gliela aveva consegnata.
Da un erede all’altro, nel 1899 essa finì in mano ai canonici della chiesa di S. Maria Assunta di Ripalimosani, il paese molisano arroccato come un presepe su un masso tufaceo dal campanile terminante con una originale cupola in maioliche colorate. Costoro, dopo aver molto riflettuto, decisero di esporla, perché, pur essendo copia (la terza in ordine cronologico) aveva acquisito sacralità “per contatto”, dopo che era stata sovrapposta al telo torinese, e poteva quindi essere venerata dal popolo  dei fedeli. Intanto, a Torino, altri incendi danneggeranno il Duomo, fino a quello, spaventoso, del 1997, quando solo l’abnegazione e la tempestività dei Vigili del fuoco riuscirono a salvare la Sindone dalle fiamme.
Il Giovedì Santo del 2010 i Cavalieri dell’Ordine dei Cavalieri della Spada e del Silenzio della regina di Cipro Caterina Cornaro (discendenti dei Templari)   hanno donato alla cattedrale di Chambéry una copia in tela della Sindone, uguale a quella portata a Torino nel 1578.
Nell’agosto 2013 un’altra copia del telo, ritenuta fedele anch’essa, è stata donata  da Arnaldo Di Lonardo, Cavaliere dell’Ordine dei Cavalieri della Spada e del Silenzio, al paese di Chiauci (Isernia), dove è custodita nella chiesa del Rosario - in memoria della moglie Nerina e di tutti i suoi concittadini.  
Un altro legame che avvicina Torino al Molise è rappresentato dalla figura del giovane figlio del fondatore de “La Stampa” di Torino,  Pier Gorgio Frassati (1901-1925), sepolto nel Duomo. Pier Giorgio è stato beatificato per aver accettato con sovrumana sopportazione il suo male, la poliomielite; la mia mente va al nostro beato fra Immacolato Brienza, esempio di virtù e motivo di orgoglio particolarmente per i campobassani.



 Il Palazzo Reale un tempo faceva corpo unico con Palazzo Madama grazie al raccordo “La Rotonda”, che oggi è parte della ricchissima Armeria reale.  Fin dalla grandiosa scalea, grazie alle sculture e ai dipinti che la costeggiano, l’edificio appare come un immenso scrigno che fa vibrare la storia dei Savoia per l’opulenza e il grande gusto degli arredi e delle architetture.
 Raro esempio di armonica unione di diversi stili, dal momento che interventi successivi si devono a F. Juvara, il quale fu promosso professore di pittura e scultura alla Reale Accademia da V. Amedeo, a Benedetto Alfieri (artefice degli specchi e delle consolle imponenti), e poi a Pelagio Pelagi (1775-1860), il palazzo testimonia il grande mecenatismo e la millenaria storia di casa Savoia, il cui capostipite è comunemente considerato Umberto Biancamano, perché di lui tratta  il primo documento scritto esistente.
 Pietra miliare dell’ascesa della casata - il cui motto è FERT – è la celebre battaglia di S. Quintino (1557), in seguito alla quale E. Filiberto di Savoia nel 1560 si trasferisce da Chambéry a Torino,  dove viene ospitato dal vescovo della città, non avendo una propria residenza.
Due incendi successivi, nel corso del XVII secolo, hanno reso possibile rimodernare e abbellire la reggia, secondo il volere di C. Alberto; sono chiamati i raffinati scultori in legno Capello e Ferrero, vengono ordinati gli arazzi di Beauvais, a poco a poco cresce la già ricca pinacoteca: dopo le opere della pittrice veneziana Rosalba Carriera (1675-1757), autrice del pastello su carta Clemente Augusto di Baviera, è acquisita la tela raffigurante V.Alfieri e Luisa Stolberg contessa d’Albany  dipinta da  F. Xavier Fabre (Montpellier 1766-1837), amante della contessa dopo la morte del grande astigiano.
Fabre è lo stesso che ha dipinto - sempre per ordine dell’autoritaria quanto pettegola contessa - il ritratto universalmente conosciuto del divino Ugo Foscolo, tenebroso e quanto mai rispondente all’autoritratto in versi che il poeta-soldato ha lasciato di se stesso.  Mi sorprendo davanti ad un’enorme tela di F. Hayez (1791-1882) raffigurante La sete patita dai Crociati sotto le mura di Gerusalemme; mi sorprendo, oltre che per le dimensioni del dipinto, per il tema affrontato: Hayez, massimo esponente del romanticismo storico, era ed è  noto come ritrattista (oltre che per il celebre Bacio): basti pensare al ritratto della principessa Cristina di Belgioioso, o a quello di A. Manzoni che  gli studenti italiani ricordano, per averlo visto chissà quante volte sui libri di letteratura!



Sempre su piazza Castello, dà Palazzo Carignano, la cui costruzione venne affidata a Guarino Guarini (1624-1683) dal principe di Carignano E. Filiberto detto “il muto”per diminutio,visto che era anche sordo. Sulle nozze di questo principe con Caterina d’Este si ricorda ancora oggi che furono contrastate fortemente dal re Sole, Luigi XIV, che evidentemente aveva mire espansionistiche sul piccolo Stato, e, di conseguenza, progettava  altre alleanze. E tuttavia i due affrontarono impavidi l’ira del Francese, il quale si vendicò mandandoli in esilio a Bologna. Il matrimonio dei due giovani, una volta rientrati in patria,  fu felice e diede alla coppia ben quattro figli. La facciata in cotto, sormontata da un enorme cartiglio recante il nome di V. Emanuele II, che è nato qui, come  C. Alberto,  presenta un andamento curvilineo, e ha un atrio con duplice scalinata: Guarino si era ispirato nientemeno che ai disegni di Lorenzo Bernini per il Louvre! Residenza del ramo cadetto dei Savoia per oltre un secolo e mezzo, esso entra nella storia quando Carlo Felice resta senza eredi.

 Nell’Ottocento un secondo corpo, la cui facciata è rivolta verso l’attuale piazza Carlo Alberto, venne destinato al Parlamento subalpino e al primo Parlamento italiano.
Dal 1878 ospita il Museo Nazionale del Risorgimento, mentre l’antica scuderia è stata ristrutturata per ospitare la Biblioteca nazionale: qui davanti fa bella mostra una statua della dea egizia Skhmet a testa leonina (XVIII dinastia), un bel promo per il museo egizio, non c’è che dire!

 Passando dall’antico Egitto all’Egitto greco-romano, come non accennare, almeno, al favoloso Papiro di Artemidoro, che oggi si può ammirare all’interno del complesso museale Archeologico che è il neonato Polo Reale? Dopo anni di processi in contumacia questo manufatto ha trovato casa qui, ma è tuttora controversa la sua veridicità.
 E’ dal 20006, anno della prima esposizione, che va avanti a colpi di articoli e libri la querelle tra due grandi esperti, Salvatore Settis, che lo considera autentico, e Luciano Canfora, per il quale l’opera è un geniale falso ottocentesco di Costantino Simonidis. Sia come sia, questo reperto è un incanto per la suggestiva mescolanza di realtà e fantasia negli schizzi di animali e piante…
Anche il mondo di celluloide ha la sua dimensione fantastica, e visitare i quattro piani del caleidoscopico, imperdibile, museo del cinema, ospitato nella Mole antonelliana, offre un’esperienza unica: tutto ruota intorno ai mitici protagonisti, registi, attori, coreografi, sceneggiatori, che hanno fatta grande la decima musa, e non mancano mostre anche interattive. E dire che la Mole ideata dall’architetto Alessandro Antonelli nella seconda metà dell’Ottocento doveva essere una sinagoga e per le difficoltà incontrate cambiò la destinazione per la quale era stata progettata. Oggi le migliaia di visitatori, preso l’ascensore panoramico, con la testa ancora frastornata dalle mirabilia (come le scarpette décolleté nere di Marylin Monroe, l’enorme Moloch delle Notti di Cabiria, i macabri arnesi dei thriller, i set  di certi film) in cui si sono tuffati increduli,  possono uscire all’aperto, sulla cima, e immergere lo sguardo sulla città stesa ai loro piedi.


A Nord-Est, sulla collina, e visibile dalla Mole, si erge la basilica di Superga, che è l’emblema per eccellenza dei Savoia, oltre che la loro mirabile necropoli.
 In uno dei momenti più cupi della sua storia, nel 1706, la città fu assediata per mesi dai franco-spagnoli. Gli abitanti erano allo stremo, quando il principe  Eugenio di Carignano, il grande stratega che impedì l’avanzata dei turchi a Vienna e Belgrado respingendoli, giunse con la sua armata austriaca in aiuto del cugino, il condottiero duca V. Amedeo, figlio della filofrancese Giovanna Battista di Nemours. Ad un certo punto, i due giovani salirono sulla collina, in alto, tra i boschi abitati dai pastori e dai carbonai, osservatorio naturale per monitorare i movimenti degli assedianti, accampati tra la Dora e la Stura; fu allora che V. Amedeo, alla vista di una cappellina  con il simulacro della Madonna con il Bambino (la statua lignea, opera del Seicento, è ora visibile nella cappella della basilica) non esitò a  inginocchiarsi. Fece il voto alla Madonna, che se avesse sconfitto il re Sole, sempre lui - artefice principale dell’attacco - avrebbe eretto in suo onore una basilica visibile da ogni dove. In poche ore, era il 7 settembre, vigilia della natività della Vergine, la guerra fu vinta, e i nemici, benché numerosissimi, sbaragliati. Diventato re di Sicilia (dove conobbe F. Juvara) che scambiò con la Sardegna nel 1718, mantenne fede alla promessa fatta, e pose nel 1717 la prima pietra. Era stato necessario abbassare la collina di 40 m., mentre il progetto di tutto il complesso fu affidato al giovane Juvara. V. Amedeo II, che è stato il primo re sabaudo,  dopo la sua morte (1732), ha atteso 40 anni nella cappella del voto, all’interno della basilica, prima di essere inumato nella cripta.
 Il Tempio  appartiene all’Ordine dei Servi di Maria, Ordine fondato da sette savi laici fiorentini nel 1233.  Inaugurato nel 1731, è molto scenografico, nel suo stile barocco, e si raccomanda anche per la singolare sala dei papi, che  ne raccoglie i ritratti (veri o immaginati), a cominciare da quello di S. Pietro.

 Situata sotto il presbiterio del Tempio, la cripta reale dei Savoia, ideata dal nipote di Juvara, Francesco Martinez, in collaborazione con gli architetti Bosio, Ravelli e Rana, fu inaugurata nel 1778 dal nipote del fondatore della basilica, re V. Amedeo III, ed è un trionfo di marmi e ori.
Vi si accede per una scalea di marmo, in fondo alla quale ti accoglie uno splendido S. Michele, opera di un allievo del Canova, il carrarese Carlo Finelli.  S. Michele sorveglia l’ingresso all’aldilà, secondo la simbologia cristiana, perché è lui che accompagna le anime nel loro viaggio.
Il gruppo scultoreo rapisce lo sguardo: Michele è un giovane dalle forme efebiche, adolescenziali, colto nell’attimo in cui con la spada sollevata colpisce un demonio dalle sembianze  umane. Nella cripta, a pianta circolare, risplendente di marmi colorati e statue, attira immediatamente lo sguardo il monumentale sarcofago di re Carlo Alberto (che morì a Oporto nel 1849 e fu qui tumulato l’anno dopo).
I muri sono coperti da altri monumenti funebri, e i tanti teschi con corona di bronzo  stanno a significare che nessuno è immortale, neanche le steste coronate.
 Nella cripta “minore”,  quella delle regine, tre tombe sono monumentali. Al centro, quella della moglie di V. Emanuele II, Maria Adelaide d’Austria, morta a 33 anni di setticemia in seguito all’ottavo parto. Buona e pia, è raffigurata ai piedi della croce mentre un angelo alato tiene tra le mani una corona di alloro.
 Un’altra regina  ̶  morta di tisi giovanissima, a 29 anni (nel 1876)  ̶  è Maria Vittoria d’Aosta, già regina di Spagna, moglie di Amedeo d’Aosta, nuora di V. Emanuele II. Maria Vittoria fu molto attenta alla salute e all’istruzione dell’infanzia, e nella sua breve esistenza si prodigò per creare asili, scuole e ospedali anche in Spagna. Tanto benvoluta dalle popolane spagnole, specialmente dalle lavandaie, che alla notizia della sua morte, vennero in massa per renderle omaggio con nastri e fiori, tuttora esposti.

Lo scultore Sante Varni di Genova ha creato il gruppo rappresentante La Carità di M. Teresa di Toscana, moglie di C. Alberto, morta nel 1855: è circondata da tre bimbi, di cui uno al seno, allegoria della grande generosità della nobildonna.
 La prima regina d’Italia, Margherita, sepolta nell’atrio centrale, si mostrò particolarmente sensibile al benessere dei suoi sudditi, e quando Napoli fu devastata dalla peste, non esitò a correre in aiuto della popolazione, che per ringraziarla le  dedicò la famosa pizza che porta il suo nome.

 Dalla parte sinistra si accede alla cripta “minore” dei bambini, dove,  oltre ai principini sabaudi,  riposano anche M. Clotilde, figlia di V. Emanuele II, morta in concetto di santità
a Moncalieri nel 1911, e la principessa Mafalda, secondogenita di re V. Emanuele III e di Elena di Montenegro. Sposata con il principe tedesco Filippo d’Assia che all’inizio aveva creduto negli ideali diffusi da Hitler, e madre di quattro figli, Mafalda (1902- 1944) venne convocata all’ambasciata tedesca da Kappler con la promessa che avrebbe potuto telefonare al marito dal suo ufficio, invece fu arrestata e finì nel campo di concentramento di Buchenwald. L’anno seguente, i bombardamenti anglo-americani provocarono  morti e feriti tra i deportati, e la principessa rimase ferita ad un braccio. Poteva essere salvata se il medico nazista del campo non si fosse rifiutato di operarla, condannandola a morire per dissanguamento (28.08.1944). A giudicare dalle loro vicende terrene, non sembra che le esponenti femminili del casato  abbiano avuta una buona sorte, malgrado gli agi regali di cui erano circondate…

Una breve passeggiata intorno alla basilica conduce alla lapide-ricordo dedicata ai trentuno morti della squadra del “Grande Torino”.
Il 4 maggio 1949, alle ore 17.05 il trimotore Fiat delle aviolinee italiane, che trasportava la gloriosa squadra calcistica, reduce da una partita amichevole disputata a Lisbona, si schiantò, a causa della fitta nebbia, contro i muraglioni di sostegno sul retro della basilica, causando la morte istantanea, oltre che dell’equipaggio, dei campioni, dei tecnici e  dei giornalisti. Profonda l’onda di commozione che attraversò l’Italia, e da allora chiunque, venendo a Superga, non manca di soffermarsi davanti alla lapide  marmorea, posta sul luogo della sciagura, che trabocca di omaggi floreali e souvenir. Ogni anno, nel giorno dell’incidente, in basilica viene celebrata una S. Messa, seguita da  un rito funebre presso la lapide, alla presenza della squadra del momento e dei dirigenti.

La “Corona di delizie” che circonda Torino è un complesso di residenze regali, scenario della  vita di corte e dei suoi loisirs, che se da una parte sono testimonianza visibile dell’irradiazione del centro del potere sabaudo, dall’altra riflettono il peso acquisito dalla dinastia nel corso dei secoli. E’ così che lungo i fiumi, in collina, nella campagna circostante, agli antichi palazzi si vanno affiancando magnifiche regge e “palazzine” progettate dai principali architetti dell’epoca, primo tra tutti l‘onnipresente Filippo Juvara.
Si menzionano, da Ovest, la reggia di Venaria, il castello di Susa, quello di Rivoli, Stupinigi, e, partendo da sud-est, il castello di Racconigi, la tenuta reale di Pollenzo,  il castello di Govone, di Moncalieri, del Valentino, della regina, e a nord, il castello ducale di Aglié. Il complesso di queste sfarzose maisons de plaisance, frutto di tale disegno politico-architettonico, è riconosciuto dall’Unesco patrimonio dell’umanità dal 1997.

Per ragioni di tempo, diamo la preferenza alla palazzina di caccia di Stupinigi, a Sud-Ovest di Torino, nel comune di Nichelino.
Preceduta da un lungo viale alberato, essa si apre come una quinta teatrale con un corpo centrale circolare ̶ sormontato da un cervo ̶ a cui si affiancano due ali a formare un semicerchio aperto sull’ampio parco. Iniziata da V. Amedeo II (gran maestro dell’Ordine di SS. Maurizio e Lazzaro) allo scopo di sopperire ai fabbisogni dell’Ordine con le rendite delle terre, Stupinigi venne successivamente ampliata dal figlio Carlo Emanuele III e inaugurata nel 1731. Al progetto, oltre a Juvara, lavorarono B. Alfieri e lo stuolo di ebanisti, intagliatori e affrescatori, stuccatori e doratori che avevano messo mano alle altre regge torinesi. Dimora prediletta dei Savoia (in particolare della regina Margherita), vi si celebrarono diverse feste di matrimoni, e fu residenza di Napoleone (e della sorella Paolina) a inizio Ottocento. Nella mitologia sabauda le origini della dinastia sarebbero sassoni, e i capostipiti i conti Beroldo e Pietro (980-1268), ma il primo personaggio di cui si hanno notizie scritte (intorno all’anno 1000) è Umberto I Biancamano. Con intenti celebrativi furono commissionati dei medaglioni lignei enormi raffiguranti appunto la genealogia reale. Attualmente restaurati (erano stati ritrovati nelle cucine in completo degrado), fanno bella mostra sulle pareti del grande salone d’ingresso, dominato dalla statua di un cervo  ̶  opera del 1766 di Franco Ladatte  ̶  in bronzo, rame e foglia d’oro.
 All’interno gran profusione di affreschi, quadri e arazzi. Notevolissime la biblioteca in boiserie dell’ebanista Capello, le scene di caccia del paesaggista Cignaroli (che ha lavorato in tutte le dimore sabaude), la stanza dal raffinato  parato ad acquerelli in carta di riso giapponese (costosissima, sottolinea la guida), e  l’appartamento del duca di Chiablese, Benedetto Maurizio, figlio prediletto del re C. Emanuele III. Assolutamente splendido il “salone d’incontro”, da dove i cacciatori partivano per la battuta seguendo la “rotta di caccia” lungo il viale della tenuta, per poi inoltrarsi nel bosco. Le battute, che erano una forma di allenamento alla guerra in tempi di pace, cominciavano a settembre e terminavano a novembre, con un ritmo di due per settimana, e ognuna durava quattro ore; anche le donne “partecipavano” a loro modo: seguendo in carrozza!
Rita Frattolillo©2015 Tutti i diritti riservati

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