giovedì 28 aprile 2016

Claudio Magris, Non luogo a procedere, Garzanti 2015




                       di Rita Frattolillo
         L’allestimento di un museo della guerra - progettato per esaltare la pace dopo la tragica morte di un eccentrico raccoglitore di armi e documenti “scottanti” - getta lampi di luce su squarci di esistenze sconosciute e impensabili che si intersecano sotto cieli e tempi diversi. I cannoni arrugginiti, le carlinghe sfondate, le vecchie baionette, ma anche armi esotiche come il macuahuitl (una mazza di legno ferrata  usata come sciabola e arma da punta in uso presso gli Aztechi e tutti i popoli della mesoAmerica), tutti attrezzi che la curatrice del nascente museo, Luisa - madre ebrea incenerita a San Sabba e padre sergente afroamericano morto a Trieste - deve allestire nelle diverse sale, aprono scenari su storie piccole e grandi  che la coinvolgono in una strana misteriosa rete.

Se quelle armi riecheggiano vicende di soldati eroici o vili, spioni e delatori, se rimandano a storie di schiavitù, di streghe, di conquistadores, di predatori, se rievocano leggende con l’odore di terre lontane, sirene e tesori, raccontano  anche fiabe e canti infantili. Che risvegliano nella mente di Luisa con il bagliore dei flash ricordi di un passato drammatico, a tratti misterioso, e riscrivono la lacunosa storia della sua lontana omonima “nera di pelle, bianca di cultura, caraibica per destino, madre di meticci”, divenuta preziosa informatrice di tesori nascosti all’epoca di Ponce de Leon.
Il dolore inaridito della madre della curatrice, un atroce dubbio irrisolto, fanno da contrappunto a momenti di un’infanzia felice vissuta da Luisa all’ombra delle favole colorate di esotismo raccontate dal padre, un uomo rievocato con profonda nostalgia.

 Questo labirintico romanzo, percorso da brandelli di vicende diverse e lontane tra loro - in cui spiccano le guerre tribali dei Chamacoco e dei Caribi e la catastrofe dell’ultimo, patetico conquistador Massimiliano d’Asburgo - è l’occasione per Claudio Magris per esternare amarissime riflessioni sulla follia della guerra  - di tutte le guerre - , la quale non è altro che una delle suppurazioni sprigionate dal sottosuolo millenario della Storia.
 Storia che “è una discarica di rifiuti”, “un tumore inoperabile”, perché le vicende tragiche che si ripetono ciclicamente non hanno mai insegnato nulla al genere umano, il quale continua a infiammare il mondo e ad alimentare la propria follia.


 Città civilissima di tradizione austriaca e italiana vicina al cuore di Magris, dapprima come fondale, poi sempre più netta e presente nelle pagine, appare Trieste, colpevole di detenere il  devastante record di  unico campo di sterminio di tutta l’Italia.
Infatti l’innocua Risiera di San Sabba, divenuta orribile luogo di morte, mattatoio mefitico di cui si sente ancora l’acre odore nell’aria,  è stata “una prova generale dell’inferno”.
Sono proprio i nomi dei delatori scritti sui muri dalle vittime – e copiate dal collezionista - a infestare i sonni di certa gente, che cerca  affannosamente quei documenti, in quanto  libri dell’accusa, del Dies Irae, per poter seppellire definitivamente la verità della Risiera e le proprie colpe.
Quella verità che è “una mina”, perché “comincia col distruggere gli altri e finisce per distruggere se stessa”.
D’altra parte dopo le morti e le distruzioni, la “pace” ritrovata costringe a porre sullo stesso piano vinti e vincitori, torturatori e torturati, delatori e vittime, partigiani e nazisti: la società ricostituita sulle macerie vuole cancellare in fretta e una “medaglia non si nega a nessuno”, neanche al più vile traditore.

Ma il collezionista muore nel rogo del capannone in cui dormiva (omicidio?),  tra le fiamme spariscono i preziosi taccuini, e con essi vengono meno le prove di un auspicabile processo collettivo.
Come se non bastasse, sui muri della Risiera una mano di calce provvidenziale fa sparire tutte le scritte incriminanti, quindi niente processo: Non luogo a procedere, niente è accaduto.


Il martirio della città sgretolata e polverizzata tra tedeschi, fascisti e titini, dove gli uccelli sono così spaventati dagli spari che stridono più forte degli spari, è raccontato mirabilmente, con un piglio distaccato, radiografico, e allo stesso tempo drammatico.
 Con limpidezza voltairiana Magris osserva il fiume di sangue che chiamiamo Storia, dove nulla si salva, eccetto il racconto del dolore che la cattiveria dell’uomo è capace di infliggere da sempre ai suoi simili.

Non luogo a procedere è tanti libri: un libro contro la guerra, contro la Storia, contro il tentativo - troppo spesso riuscito - di cancellare la Memoria. Di spegnere persino il ricordo di chi se ne è andato con la violenza. Il tentativo di togliere di mezzo persino la consapevolezza di ciò che si è fatto.
 Ma se la  Storia deraglia e precipita quasi sempre - e quello di Magris è un grido di dolore e di rabbia contro l’ottusità di tutte le guerre, con il loro carico di irresistibile pulsione di morte - pure non mancano uomini con la schiena dritta, eroi, come il vescovo Antonio Santin, che ebbe il coraggio di  apostrofare il Duce quando venne a proclamare le infami leggi razziali proprio a Trieste, lo stesso che difese il suo “gregge” in ogni modo, arrivando a trattare con titini e tedeschi per non far saltare il porto.

La lettura di Magris ti riconcilia con la buona scrittura, risveglia la voglia di giustizia, ed è come un tuffo in un mare profondo da cui ogni tanto hai bisogno di emergere per galleggiare sospeso nella vastità del suo pensiero.
Che va dritto al disvelamento della verità sulla storia della Risiera di San Sabba e alla cognizione della corresponsabilità di tutto il genere umano per ogni massacro che accade. Perché la “zona grigia”, dice Magris, non esiste.

Rita Frattolillo © Tutti i diritti riservati 2016








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