mercoledì 23 settembre 2015

Europei, ma di cos’è che abbiamo davvero paura? (Il Libraio.it, 11.09.2015) di Simonetta Tassinari, risponde Rita Frattolillo






Ho letto con molto interesse l’analisi firmata da Simonetta Tassinari,  amica che stimo e apprezzo, oltre che per le qualità umane, per le doti di scrittrice talentuosa. Ero particolarmente interessata, anzitutto perché il tema dell’emigrazione ci coinvolge tutti – e non potrebbe essere diversamente - e poi perché, a fronte dell’esodo biblico che stiamo vivendo, la voce meno presente è proprio quella degli intellettuali: politici e giornalisti imperversano sui giornali e dai teleschermi a tutte le ore, ma di intellettuali, davvero pochini…


Dunque, l’analisi di Simonetta, che tocca - con lo stile lieve che è un tratto distintivo dell’A. - i sentimenti contraddittori degli europei su questa questione, nell’insieme  dà l’impressione che lei guardi al problema con occhio “filosofico”,  un po’ troppo   distaccato.

Premesso che senza ricorrere alla filosofia si è idioti,  ovviamente non nel senso dostoevskiano, ma nel senso dell’incapacità di comprendere e di stare al mondo, va anche detto che in certi frangenti occorre scendere dall’empireo, stare con i piedi per terra  per  vedere le cose più da vicino …

Limitandomi a qualche suggestione posta sul tappeto da Simonetta, comincerei da dove lei afferma che “occorre essere flessibili, pronti nelle risposte, nel realizzare azioni appropriate(…)E’ evidente che l’accoglienza non potrà essere indiscriminata e illimitata (…)e senza una buona legislazione, senza scelte razionali, sensate e rispettose dell’umanità, nascerebbero conflitti non rimediabili (…)”
Parole  sacrosante, queste, a cui aggiungo che  siamo contrari ai muri, e che siamo convinti che tutti nascono umani (parafrasando Einstein) ed hanno diritto al rispetto della loro dignità.

Tuttavia c’è un però grande come una casa, in quanto  l’unione europea, nell’ accogliere o nel rintuzzare il flusso migratorio diventato sempre più massiccio, ha fornito una perfetta prova della sua completa disorganizzazione e disunione, dominata com’è dagli egoistici interessi nazionali; e già questo basterebbe a giustificare i timori degli europei: l’incapacità palese di programmare una strategia comune per l’accoglienza.

Guardiamo la realtà dei fatti. Stiamo vivendo un periodo di passaggio tra epoche che sta sgretolando una dietro l’altra le nostre certezze: il crollo di un mondo col posto di lavoro fisso, la “novità” dell’esplosione del terrorismo, le rovine del vecchio ordine mediorientale su cui disgraziatamente è sorto uno “Stato” che assume e propaga valori che sono la negazione dei nostri valori.
 Se questo è lo scenario globale, come essere tranquilli?

Poi, ci si rimprovera di non essere  più solidali come una volta con i migranti in arrivo…Come ha scritto Fabrizio Gatti (L’Espresso del 17.09.2015), in Italia l’umanità generata il 3 ottobre del ’13 dall’immane tragedia dei 366 profughi annegati a Lampedusa sta evaporando perché i numeri dell’esodo fanno paura; chiunque comprende che essi impattano sul corpo sociale, e d’altra parte il governo italiano continua a gestire questo esodo come un’emergenza, dando la netta  - allarmante - sensazione di improvvisare giorno per giorno. Quella del governo  sembra una confusa navigazione a vista, come dimostra la ricerca affannosa di posti letto (dagli hotel ai capannoni alle case sfitte) da allestire in ogni dove. E’ l’inefficienza nell’assistenza e nei controlli degli immigrati  la causa principe del disagio sociale che ormai si avverte, sia pure con toni diversi, dal nord al sud della Penisola.

 I richiedenti asilo devono ricevere, come è naturale, la giusta assistenza, ma per quanto tempo – dal momento che l’accertamento dello status di profugo dura più di un anno, quando arriva - saremo in grado di garantire oltre settantamila pasti tre volte al dì a un numero crescente di disoccupati stranieri senza nessun futuro?
 Se lo chiede F.Gatti e noi con lui.

Disoccupati che vediamo ciondolare da mane a sera nelle strade delle nostre città, oziare col telefonino all’orecchio, e che non tarderanno a manifestare contro le condizioni del cibo o qualunque altra cosa, come già sta succedendo…
 Aumenteranno anche gli stranieri, che, se  provengono da Paesi non in guerra, saranno respinti a casa loro. Si tratta di ragazzi giovanissimi (a proposito, con che cuore  hanno potuto  abbandonare i loro “vecchi” in mezzo alla fame e alla guerra?) con scarsa preparazione scolastica e nessuna formazione professionale rifiutati dalla Germania (e non solo) che, avuto il foglio di via, diventeranno clandestini,  e faranno quindi perdere le loro tracce. Quanti di essi rimarranno in Italia? Una volta perduto il diritto all’assistenza  e alla ricarica telefonica, chi gli impedirà di commettere reati per sopravvivere?

Simonetta a un certo punto si (ci) chiede se il timore generale è che si abbassi il nostro tenore di vita.
Il problema numero uno dell’immigrazione massiccia è l’impatto sul welfare; glisso sul fatto che siamo noi a pagare le spese sanitarie anche per i migranti,  ma mi soffermerei su una situazione che suscita rabbia e malumori:  gli italiani rovinati con ritmo crescente dal dissesto idrogeologico (alluvioni e frane) si sentono cittadini di serie B perché abbandonati dallo Stato; eppure pagano le tasse (e non sono poche, come sappiamo),  ma se la devono cavare da soli, pur se hanno perso nel disastro casa e lavoro, mentre agli emigrati sono comunque assicurati letto, pasti e sanità.

Fa montare la rabbia, poi, che nelle graduatorie comunali per accedere alle scuole materne e alle case popolari abbiano la precedenza le famiglie con molti figli, con la conseguenza che gli italiani, avendo meno bambini, finiscono in coda. E non si tiene conto del fatto che mentre le donne extracomunitarie, lavorando solo in casa, possono badare alla prole, le italiane, se vogliono continuare a lavorare (fuori casa), devono accollarsi la retta delle scuole materne private.

 Simonetta ammette che “nell’attuale afflusso intervengono innegabili differenze di mentalità, religione e tradizione”.
Già. E  ricorda a suon di numeri che l’identità cristiana finora ha resistito, in Sicilia come in Spagna, come in Grecia, concludendo con un salomonico: “Se la nostra identità sarà forte, resisterà; e, se non lo sarà, di chi la colpa?”

A  proposito di tale “resistenza” vorrei citare quanto scriveva (Molise insieme del 30 giugno ’14, p.5) il missionario Padre Massimo Palinuro sulla scorta della sua esperienza. Nell’attuale Turchia occidentale, luoghi dove “ il Cristianesimo ha fatto i suoi primi passi sotto la guida degli apostoli (Giovanni, Paolo, Filippo, Luca e altri apostoli), oggi il 99,4% della popolazione è musulmana. Nel corso dei secoli, tra alterne vicende, si è avuta una graduale e inesorabile islamizzazione coatta di questa terra. Nel 1915, dopo secoli di dominazione ottomana, il 20% della popolazione dell’attuale Turchia era ancora cristiana. Nel giro di pochi decenni, tra il genocidio armeno e la pulizia etnica contro i greci, questa presenza  cristiana è stata quasi sradicata. Lo stesso processo sta avvenendo in maniera raccapricciante in Siria, in Iraq, in Egitto e in molti altri paesi a maggioranza islamica, nell’indifferenza complice di un Occidente che ha rinnegato le sue origini cristiane(…). In Turchia la comunità fondata dagli Apostoli continua a vivere, pur vivendo in una condizione di diaspora e sperimentando il dramma dell’incomprensione e del martirio. Qui essere cristiani richiede un grande coraggio; qui è contemplato il “reato di missionarietà”, e persino mantenere aperta una chiesa è un’operazione complessa e rischiosa.(…) Si è cercato di cancellare e marginalizzare ogni traccia del Cristianesimo(…)”.

Lungi da me l’intento di provocare allarmismi, ma, per restare in linea con la domanda di Simonetta “Se la nostra identità sarà forte, resisterà; e, se non lo sarà, di chi la colpa?” è naturale chiedersi: noi sapremmo difendere fino al martirio la nostra identità cristiana, come hanno dimostrato, ad esempio, gli armeni? Noi europei, considerati da più parti il “ventre molle” dell’Occidente, ritenuti pigri, titubanti, imbelli, saremmo – all’occorrenza -- tanto determinati da imbracciare le armi per difendere i nostri principi religiosi? E se il Cristianesimo, dal Concilio Vaticano II in poi si va aprendo sempre più al dialogo interreligioso alla ricerca di una lingua condivisa, non credo si possa dire altrettanto dell’Islam. Islam, che, nelle sue varie declinazioni,  è una religione che esprime un’esigenza di assolutezza.

Il Corano afferma ripetutamente che  la pace è l’obiettivo principale e il bene supremo della vita umana, ma l’impegno per la questione dell’Islam (gihad), come lotta per la fede e il dominio della religione, spetta come obbligo a ogni musulmano. Quindi, prioritaria la diffusione della religione in tutto il mondo, secondo i dettami di Maometto, che esortò i credenti alla lotta in nome di Dio e della religione. Anche se è viva una tradizione di pace, sentita da molti credenti musulmani, essa viene offuscata  in noi europei giorno dopo giorno dall’Islam militante, per la brutalità e la barbarie inenarrabili con cui sta  distruggendo fisicamente gli “infedeli” (i cristiani) e persino gli straordinari monumenti plurisecolari colpevoli solo di essere un prodotto preislamico; è questo volto truce, ultimamente vincente, a far valutare negativamente a noi europei  tutto l’Islam nel suo complesso, ci ghiaccia e  ci fa perdere la speranza di poter convivere un domani con chi si impone – lo dimostra la cronaca - con la violenza.

Mentalità e Tradizione. L’Islam  pervade  tutti  i settori della vita politica, pubblica e privata, e si oppone con forza  a tutte le tendenze di secolarizzazione. Contempla, tra l’altro, una concezione della donna molto distante da quella occidentale, che non possiamo accettare. Il riconoscimento dei diritti inalienabili è stato una conquista ottenuta lungo secoli di battaglie portate avanti per ottenerli; figuriamoci che nel vicino 1997 fu ancora necessario formulare il documento “La carta dei diritti della bambina”  per assicurarne l’approvazione da parte della maggiornaza dei Paesi “civili” (Conferenza mondiale di Pechino sulle donne del 1995 organizzata dalle Nazioni Unite).  Questo per dire che  la mentalità musulmana riguardo alla condizione femminile ci getterebbe nel medioevo. Del resto, per comprendere in che modo è considerata la donna, basta ricordare che nel Paradiso (Jannah) degli eroi musulmani, coloro che hanno combattuto per la loro fede sono premiati con il dono di ben 72 vergini (houri), da “usare” per il loro piacere all’infinito. E per le donne martiri? Bene, a loro deve bastare un solo uomo….

“I nostri punti di riferimento non cambieranno, e tutto ciò che ha formato e nutrito la nostra anima non verrà toccato” afferma Simonetta.
 Non ne sarei altrettanto sicura, e penso a quelle maestre  che, per non “urtare la sensibilità” dei bambini musulmani, per la festa di Natale non hanno allestito il presepe, né fatto cantare gli anni natalizi. Questo è solo un esempio, che può sembrare banale,  ma la dice lunga sulla confusione che già regna circa la custodia delle nostre tradizioni e la  loro trasmissione ai giovani. Se ai nostri bambini mancheranno queste forme della tradizione (che tutte confluiscono nell’identità), come potranno nutrirne la loro anima? Va da sé e dò per scontato che nel melting pot che si è creato urge introdurre nelle scuole la disciplina “Storia delle religioni”.

“ I mondi finiscono e ricominciano di continuo”, tra gli altri  lo potrebbero confermare i  pochi pellerossa scampati ai “visi pallidi”, così  come lo potrebbero confermare gli aztechi, se non fossero stati annientati dai conquistadores spagnoli –  la mia mente va al magnifico romanzo Mexica di Simonetta, che proprio di questa tragedia tratta -, e noi che  siamo in mezzo a questa odierna svolta epocale l’avvertiamo e come!

Ma c’è pure un tarlo fastidioso: sulle cause della caduta dell’impero romano d’Occidente e della fine del mondo antico influirono parecchio le migrazioni barbariche e la pressione dei barbari, oltre alla caduta dei valori del mondo classico e la decadenza del senso civico; e fu proprio un comandante barbaro dell’esercito romano, se non ricordo male, a  deporre l’ultimo imperatore d’Occidente, nel lontano 476.


E se la storia in questo caso non è, come dovrebbe essere, magistra vitae, allora sono  i Corsi e Ricorsi storici di Giambattista Vico a dare un ulteriore rinforzo..

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