martedì 3 maggio 2016

Un gioiello milanese del periodo risorgimentale:Palazzo Archinto



  di Rita Frattolillo
 
        Nel cuore di Milano, nella silenziosa ed elegante via della Passione fiancheggiata da begli edifici in stile tardo neoclassico si erge, severo e imponente, Palazzo Archinto.
Dal grande portale aperto si nota, al centro del cortile  d’onore, la statua bronzea, eseguita dall’allievo di Antonio Canova Angelo Pizzi, che  ritrae Napoleone  nella posa e nelle vesti di  antico romano.
Non avrebbe mai potuto immaginare, il conte Giuseppe Archinto che lo fece costruire,  che il cortile del suo  sontuoso palazzo sarebbe stato un giorno dominato dalla statua di Napoleone, l’uomo simbolo dei principi libertari che egli osteggiava.
 Un affronto, per lui,  talmente filoasburgico da aver inserito nel suo stemma l’aquila bicefala!

Ma non avrebbe neanche lontanamente immaginato, il conte, che i magnifici interni avrebbero assistito alle vicende storiche più eterogenee.

Infatti le sale decorate con tanta dovizia  risuonarono non solo della musica ammaliante del violino e dell’arpa, strumenti suonati  con passione e maestria da entrambi i padroni di casa.
Quelle sale avrebbero nel periodo postunitario accolto le timide educande del Collegio reale, i feriti durante la Grande guerra, ospitato gli studenti dell’università statale dal 1942 al 1956, e infine la scuola statale  (aperta ai maschi dal 2008) intitolata dal 1986 a Emanuela Setti Carraro, assassinata  dalla mafia con il marito generale Dalla Chiesa e con la scorta.
In muta contemplazione  davanti a Napoleone mi  chiedo se i fortunati studenti che passano le loro ore scolastiche tra affreschi magnifici, arazzi ispirati ai cartoni di Giulio Romano, stucchi e statue, quadri di valore, camini scolpiti, porte decorate, pavimenti musivi, che godono degli spazi di un parco enorme e di campi sportivi ombreggiati da alberi secolari, sanno perché sono accolti ogni mattina dallo sguardo severo dell’imperatore Bonaparte.


La spiegazione - buona per tutti - arriva dall’interessante mostra fotografica allestita al primo piano, che ripercorre la vita dell’educandato fin dalla sua istituzione.
Oltre alle foto ufficiali, siamo attratti dai documenti d’epoca in bella mostra: i registri del corredo delle educande contengono l’inventario dei capi di abbigliamento richiesti, tra cui spiccano, per la grafia svolazzante e accurata, “busti, reticelle, grembiuli, camicie, sottane, pannilini, paia di calze”. Lì accanto, il registro del personale docente e quello delle disposizioni statali.




Quest’ultimo è aperto su un capitolo nero della nostra storia, quello riguardante le leggi razziali: nel 1938 è trascritto l’allontanamento dall’insegnamento della prof. di francese ebrea Marcella Dreyfus, nata a Milano il 12-07-1898.
Un cognome famoso, il suo, se si pensa all’affaire Dreyfus, che infiammò la Francia di fine Ottocento (1894), e vide schierati dalla parte del capitano ebreo gli altisonanti nomi di Proust e di Zola con il suo “J’accuse!”
La risposta determinante ce la dà  la gigantografia del Decreto napoleonico che nell’anno di grazia 1808 istituiva l’educandato “Collegio reale delle fanciulle”.
 Articolo dopo articolo, quel Decreto codifica la volontà dell’uomo che, durante la sua breve dominazione nella Repubblica Cisalpina, in qualità di “imperatore dei  francesi, re d’Italia e Protettore della Confederazione del Reno” decise l’istituzione di un Collegio reale delle fanciulle “ destinato alle figlie di coloro che avevano reso importanti servigi alla carriera delle armi e delle magistrature.”


 Milano, allora capitale del regno d’Italia,  fu il luogo scelto per avviare l’esperienza di questo educandato d’élite che intendeva proporsi come modello di altre analoghe strutture educative per ragazze.
 Si trattò di un progetto formativo molto moderno che specificava i principi e i valori dell’azione educativa che doveva essere “utile e distinta”. I docenti avrebbero dovuto inculcare i “principi della religione e della morale, dell’economia domestica, del ricamo”, e insegnare le lingue italiana e francese, l’aritmetica, la geografia, la storia, la musica e il disegno. Non mancava nulla, per la formazione di una dama completa, neanche la danza.
Apprendiamo che all’inizio il Collegio venne ospitato nell’ex convento di S. Filippo, finché, nel 1865, il Ministero della Pubblica istruzione del neoproclamato Regno d’Italia gli concesse una sede prestigiosa: Palazzo Archinto.



Il quale non era stato certo costruito per ospitare un Collegio, seppure di notevole reputazione, ma per soddisfare l’ambizione del conte Giuseppe (1783-1861), desideroso di avere una nuova dimora consona al prestigio sociale ed economico della sua famiglia e una degna collocazione per le importanti collezioni d’arte del ricco patrimonio.
A questo scopo, il conte nel 1833 diede incarico all’architetto Gaetano Besia (1791-1871) di progettare il nuovo palazzo, deciso a lasciare la precedente dimora in via Olmetto, malgrado quest’ultima  vantasse addirittura dipinti di Giambattista Tiepolo (1696-1770). Il nuovo edificio, alzato in soli quattro anni, è a pianta rettangolare e si sviluppa su tre piani, intorno a tre cortili, di cui uno d’onore e due di servizio, con a fianco un ampio colonnato per le scuderie (diventato refettorio per gli studenti).
 La facciata posteriore si apre sull’enorme giardino all’inglese.
Malgrado il palazzo sia stato più volte trasformato e restaurato in seguito alle diverse destinazioni d’uso cui  è stato temporaneamente adibito,  alcuni ambienti interni del palazzo si sono conservati nel tempo senza sostanziali alterazioni.
 Già la magnifica scalea racchiude tesori  di una tale sontuosità che non è difficile  credere che le aspettative del conte furono soddisfatte, ma a prezzo tanto alto che il figlio del conte, Luigi (1821-1899), per far fronte all’erosione delle risorse finanziarie, fu costretto a vendere sia il palazzo che le preziose collezioni.  



Giriamo da una sala all’altra affascinati, ognuna è uno scrigno di rara magnificenza: la sala pompeiana,  abbellita dagli affreschi dell’architetto parigino Auguste Thumeloupe, gareggia per splendore con quella della musica, che oltre agli stucchi mirabili del soffitto, attrae per il camino neo-cinquecentesco fiancheggiato dalle statue eseguite da Raffaele Monti, e con la sala delle sei leggiadre ballerine, ispirate alle figure del vasellame rinvenuto nella  Pompei seppellita dalla lava del Vesuvio. Ma è la chambre à coucher che ci riserva un’ ultima, grande sorpresa: scopriamo che la padrona di casa, la contessa Archinto, era nientemeno che Cristina Trivulzio, figlia della contessa Beatrice Serbelloni Trivulzio e omonima della “madre della Patria” risorgimentale Cristina Trivulzio di Belgioioso, la nobildonna immortalata da Hayez e amica di Stendhal, la patriota amica di Mazzini che tanto operò per liberare il Lombardo-Veneto dagli Asburgo, noleggiando persino le navi per spedire  volontari nel Regno di Napoli.



 Ma si vede che nel sangue delle Trivulzio scorreva il sangue della ribellione, della libertà, se Cristina, che appena  ventenne nel 1819 aveva sposato Giuseppe Archinto, con cui condivideva l’amore per l’arte e la musica, se ne allontanò per contrasti politici: se lui simpatizzava per gli austriaci, lei nutriva gli stessi ideali di Silvio Pellico (1789-1854)  e agognava la liberazione dal dominio austriaco.
 Trasmise quegli ideali al figlio Luigi,  che per aver partecipato alle barricate delle Cinque giornate (1848), interruppe i rapporti  con il  padre.
Silvio Pellico - che era rimasto folgorato dalla contessina già la prima volta che l’aveva  intravista, quel fatale 1819 -  la rivide solo nel 1836, e i due si ritrovarono addirittura 11 anni dopo.
In quegli anni si fantasticò parecchio sulla presunta “simpatia” tra il poeta- scrittore-patriota di Saluzzo e la contessina; fatto sta che nel 1847 uscì a Torino una raccolta di poesie di Cristina dedicata al Pellico.



La lettura di certe lettere dell’Archivio Archinto ha permesso recentemente di confermare quella che fino a qualche anno fa era soltanto una diceria: lo stesso anno della pubblicazione delle poesie i due si erano sposati senza troppo sfarzo, una cerimonia sicuramente tardiva, a suggello di un amore che - a quanto pare - malgrado le difficoltà aveva resistito agli anni.
Chissà quei muri con lo scorrere degli anni quanti sospiri d’ansia della contessina hanno accolto, mentre la dama pensava al suo spasimante o quando, in preda all’ispirazione e alla nostalgia, gli dedicava i  suoi versi…..




Rita Frattolillo © Tutti i diritti riservati 2016









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